Friedrich Holderlin (1770-1843): “Metà della vita”, 1805.

Friedrich Holderlin (1770-1843), “Metà della vita”, 1805

 

Con gialle pere si curva

e folto di rose selvatiche

il paese nel lago,

voi cigni amati,

e ubriachi di baci

voi tuffate il capo

nell’acqua sacra-sobria.

 

Ahimé, dove prendo, quando

è inverno, i fiori, e dove

la chiarità del sole

e l’ombra della terra?

I muri stanno

afoni e freddi, nel vento

cigolano le banderuole.

 

                            “ Halfte des lebens”

 

Mit gelben Birnen hanget

und voll mit wilden Rosen

das Land in den See,

ihr holden Schwane,

und trunken von kussen

trunkt ihr das Haupt

ins heilignkussenchterne Wasser.

 

Weh mir, wo nehm’ich, wenn

es Winter ist, die Blumen, und wo

den Sonnenschein,

und Schatten der Erde?

Die Mauern stehn

sprachlos und kalt, im Winde

klirren die Fahnen.

dal “Taschenbuch”, 1805

 

A noi novecenteschi e oltre, abituati a tutto, può sembrare un idillio ispirato alle stagioni –se ne facevano tanti allora, in letteratura come in musica, con le loro brave riflessioni sentimentali e morali. I recensori dell’Almanacco in cui la poesia (insieme ad altre otto) uscì nel 1804 non furono dello stesso parere: parlarono di “vaneggiamento in versi” e uno ironizzò: “Per il raro mortale che si vanti di aver capito queste nove poesie… dovrebbe essere bandito un premio cospicuo, e non impediremo neppure all’autore di partecipare”. Il primo editore che le raccolse in volume (quando già effettivamente Holderlin viveva rinchiuso nella casa di un falegname, guardato a vista dopo una diagnosi di schizofrenia conclamata), trovando troppo strane le “Birnen” del v. 1 le trasformò in “Blumen”, fiori. Eppure quelle pere gialle con cui la terra si sporge, pende sul lago, sono un’immagine straordinaria di matura estate; col verbo a fine verso che tira giù con sé verso l’acqua anche le rose. E i cigni ubriachi di baci, che tuffano la testa in quella stessa acqua, chiudono il paesaggio in perfetta circolarità. La sintassi, certo, è anomala: con quegli und che sembrano riaprire frasi già orientate, quell’ihr vocativo ripetuto, quell’aggettivo composto e inedito, heilignuchtern (santamente sobrio). Nella seconda strofa sono anomali i due primi versi, che finiscono con quando e dove in bilico sul verso successivo. Ma la cosa che doveva apparire più incomprensibile è il nesso tra le due strofe: siamo in estate e ci si immagina l’inverno, o viceversa? Quelle mura afone e indifferenti sembrano viste al presente, non c’entrano con la calda estate di prima. Ognuna delle due strofe ha intimamente bisogno dell’altra, sono tesi e antitesi –ma manca la sintesi.

Holderlin è stato compagno di collegio di Hegel, a Jena abitava accanto a Fichte, era molto amico di Schelling: nel cuore dell’idealismo tedesco. Avevano fatto il tifo per la rivoluzione francese, poi Napoleone li aveva delusi. Hegel stava reagendo con una formidabile costruzione di pensiero, si stava inventando la filosofia della storia: il negativo veniva “superato” in una positività più alta. Holderlin era psichicamente il più fragile: in famiglia aveva respirato il lutto, nel 1802 era morta Susette Gontard, la sola donna che avesse amato davvero. Per lui il principio di individuazione era la sofferenza: il tempo non si fa addomesticare dall’assoluto e la vita non è l’idea. Al centro della poesia sta proprio lo spazio bianco tra le due strofe (entrambe di 7 versi e in metro libero, ma quanto ritmicamente più ansiosa la seconda!): le due metà della vita, anzi halfte singolare, una metà, metà di una vita troncata in due. Quello spazio bianco è il segno di una lacerazione non sanabile.

Sotto l’apparente idillio c’è un simbolismo più ambizioso: la tarda estate è pienezza, erotismo, armonia degli opposti (la selvatichezza delle rose e il vino che dà l’ebbrezza dionisiaca si placano nella sobrietà sacra dell’acqua) –Schiller gli aveva raccomandato in una lettera di mirare alla “sobrietà nell’entusiasmo”. E lui che venera Schiller si propone come poeta che ricompone una totalità perduta, anzi che tiene in vita il ricordo della totalità nella “notte” che il mondo sta attraversando (il ciclo di nove poesie nell’Almanacco lo aveva lui stesso definito Canti della notte). Ma non ce la fa, cerca i fiori d’inverno come quel ragazzo, impazzito per amore, che Werther incontra nel romanzo di Goethe. D’inverno la luce e l’ombra non si distinguono più e le cose appaiono indecifrabili: sono sprachlos, senza linguaggio, o parlano una lingua incomprensibile. In un abbozzo di questa poesia i fiori erano cercati “per intessere corone ai Celesti”, e Holderlin aggiungeva che a non trovarli “sarà come se più non conoscessi il Divino”. Sotto il ciclico contrasto delle stagioni c’è la perdita irrimediabile del contatto con l’Assoluto, la fine di un’utopia universale. Qui sta lo spessore tragico del testo, così pazzoide per i suoi contemporanei e così familiare alle novecentesche terre desolate o case dei doganieri. Nel progetto di inno intitolato La ninfa arriva a dire che siamo noi uomini “un segno senza spiegazione”.

Adorno sosteneva che la paratassi, cioè accostare le frasi senza subordinarle (tipica dello stile di Holderlin, e caratteristica principale di questa nostra poesia) dipendeva dalla docilità, dalla passività esistenziale; e che questa passività lo ha condotto alle riuscite più geniali quando è diventata docilità alla lingua –cioè lasciar fare alle parole, “essere parlati”: lasciare che le parole si raggrumino in gorghi involontari (qui, l’incontro “trunken/trunkt”, o la folla di “w” ai vv. 8-9), come se gli dei in fondo fossero l’inconscio. Purtroppo Holderlin è andato oltre: la tensione inconciliabile lo ha portato personalmente alla psicosi –le poesie degli ultimi anni, che firmava “Scardanelli, con deferenza”, parlano delle stagioni ma con massime rassicuranti, in rima. Si è arreso, la scissione è stata rimossa e il tempo “nemico” non esiste più –lui, che non datava mai le sue poesie, nella casa del falegname le data con cura: ma le date vanno dal 1648 al 1940.

 

Walter Siti, in “La Repubblica”, domenica 3 agosto 2014, p. 52