Populisti nell’antica Atene

Populisti nell’antica Atene

Anche la democrazia greca conosceva i guasti della politica ridotta a spettacolo. Platone voleva rimediare con lo spirito critico e con il governo dei filosofi.

 

In uno dei suoi scritti metodologici Max Weber ci invita a fare un esperimento mentale. Proviamo a immaginare che cosa sarebbe successo se i Persiani avessero vinto la battaglia di Maratona nel 490 a.C. La Grecia sarebbe diventata una colonia dell’impero achemenide, sotto il tallone del re dei re Dario, un tiranno che pretendeva di essere un dio. Addio alla democrazia e al libero pensiero. E, in retrospettiva, addio alla civiltà occidentale come oggi la conosciamo, che ebbe i suoi natali quasi tre millenni fa proprio sulle rive dell’Attica.

La storiografia più recente ha un po’ stemperato l’eccezionalismo del miracolo greco, mettendo in luce la fitta rete di legami e contaminazioni fra il mondo ateniese e quello mediorientale, soprattutto fenicio ed egiziano (si veda ad esempio il libro di Martin Bernal, “Atena nera”). Resta però il fatto che furono il pensiero e le azioni dei Greci a trasformare un humus culturale in parte condiviso in straordinarie realizzazioni concrete nell’arte, nella letteratura, nella filosofia. E a dare vita al primo esperimento democratico della storia, alla fine del VI secolo a.C.

In un bel libro recentemente tradotto in italiano dalle edizioni Ariele, “Democrazia: l’eredità politica greca”, il politologo francese Yves Mény spiega perché la civiltà greca esercita ancora oggi una persistente seduzione. L’autore, per lungo tempo professore a Parigi a Sciences Po, è uno studioso ben noto anche nel nostro Paese, non solo per i suoi lavori scientifici, ma anche perché è stato a capo di alcune tra le più prestigiose istituzioni accademiche in Italia, come l’Istituto universitario europeo di Firenze, la Scuola Sant’Anna di Pisa, il Collegio Carlo Alberto di Torino. L’autore riflette su un’ampia varietà di argomenti, così rivelando uno straordinario spessore culturale, e soprattutto la grande passione umana e civile per quello spirito greco che tuttora anima la nostra identità di europei.

Nelle varie voci in cui si articola il volume, Mény illustra l’intreccio fra mythos e logos, le due forme espressive con cui il pensiero greco ha identificato e discusso fondamentali questioni che riguardano la condizione umana, nella sua sfera individuale e collettiva. Il mito prevale agli esordi (Omero) per poi lasciare sempre più spazio alla ragione (Aristotele). In Platone, raffigurazione mitica e ragionamento filosofico hanno saputo creare intrecci di ineguagliabile suggestione: pensiamo al mito della caverna e alla teoria delle idee, o al mito di Eros, la forza vitale che unisce il sensibile all’intellegibile. Passione e raziocinio, immaginario e reale, dionisiaco e apollineo: fra queste polarità, con le vesti di Ulisse, Medea, Antigone, ma anche Pericle o Socrate, lo spirito greco ha aperto la strada che ha condotto alla modernità.

Mény ci riporta ai punti di partenza, proponendo poi al lettore itinerari di ritorno attraverso epoche e culture diverse che hanno tratto ispirazione dai Greci, dal Rinascimento italiano alla rivoluzione americana, fino alla hybris jupiteriana del generale Charles de Gaulle.

Molte voci del libro riguardano la democrazia e le sue varie sfaccettature: città e cittadinanza, Stato di diritto e buongoverno. Il concetto di demos nacque nell’Atene di Pericle per designare una comunità di cittadini che si autogoverna liberamente. Nella sua “Guerra del Peloponneso” Tucidide ricorda l’orazione funebre pronunciata da Pericle per i guerrieri caduti in battaglia e presta al leader ateniese le parole per caratterizzare la democrazia: una forma di governo che persegue il bene comune dei cittadini, trattati come uguali davanti alla legge, i quali possono accedere alle cariche pubbliche in base al merito, indipendentemente dalle loro posizioni sociali. Una caratterizzazione in cui troviamo in nuce gli elementi costitutivi di un ideale politico che, seppur faticosamente, si è affermato nel tempo come norma di riferimento universale.

La vita del demos è regolata da una Costituzione. Aristotele fece raccogliere dai suoi allievi 158 costituzioni, giungendo alla conclusione che la forma di governo migliore è quella mista, in parte democratica e in parte oligarchica (numero e competenza). A partire dal XVIII secolo, il principio delle costituzioni scritte ispirò i rivoluzionari americani e francesi, inaugurando una tradizione che ha informato tutti i successivi processi di democratizzazione.

Come già Platone, Aristotele diffidava della democrazia piena (allora basata sulla partecipazione diretta dei cittadini) in quanto incline a degenerare in demagogia, un governo nelle mani di capi-popolo incuranti della verità, dediti alla manipolazione delle opinioni tramite le arti retoriche. Durante la guerra del Peloponneso il demagogo Alcibiade fece leva sulla vanità degli ateniesi per convincerli a conquistare la Sicilia –un’operazione dall’esito disastroso. Nella commedia “I cavalieri” Aristofane mette in scena un personaggio di nome Demos, appunto, il quale si lascia abbindolare da un salsicciaio che s’impadronisce delle sue ricchezze. L’opera rappresenta in maniera grottesca la situazione politica dell’epoca, l’involuzione progressiva della democrazia ateniese in quella che Platone aveva chiamato teatrocrazia, il governo dello spettacolo. L’antidoto proposto dal grande pensatore di Atene era il governo dei filosofi.

Mény giustamente osserva che in questo Platone si sbagliava, cullandosi nell’illusoria credenza che scienza e ragione possano pienamente comprendere e orientare il comportamento umano. Ma se ad essere almeno un po’ filosofi fossero tutti i cittadini? Se la democrazia riuscisse a equipaggiare i proprio demos con gli strumenti per riconoscere ed esercitare il logos ?

Di fronte al populismo imperante dei giorni nostri, il richiamo al ruolo della filosofia come allenatrice del pensiero e del dubbio critico (la skepsis), soprattutto per i più giovani e futuri cittadini, non sembra così peregrino. Mény stesso conclude il suo libro evocando l’astuto Ulisse, un uomo attirato dalle sirene ma anche capace di resistere alla seduzione di una immediata felicità per proseguire il suo cammino verso la conoscenza. Un viaggio che può trasformarsi in folle volo che, come per l’Ulisse dantesco, porta alla rovina se ispirato da eccessi d’ambizione. Ma anche l’unico viaggio che per lo spirito greco valeva la pena di intraprendere. E che noi moderni ci sforziamo di proseguire, anche se non possiamo conoscerne la destinazione.

 

                                                                  Maurizio Ferrera

 

Questo articolo è stato pubblicato ne “La Lettura” del 10 aprile 2022, supplemento culturale del Corriere della Sera, a pag. 19.