Belli. Sonetti. “La moje disperata”. 16 marzo 1834

Belli. Sonetti. “La moje disperata”. 16 marzo 1834.

 

Le donne occupano quasi metà della vastissima opera di Belli: tipi, personaggi, caratteri pieni di una vivacità, di una umanità straordinarie. Si nota infatti che, mentre nei protagonisti maschili è più intensa la carica di amarezza e di ribellione, nei confronti delle donne tratteggiate nei Sonetti si evidenzia la fondamentale “pietà” del poeta, la sua partecipazione profonda e più struggente e la sua meditazione sull’uguale destino di oppressione, di prevaricazione, di ingiustizia che le  accomuna, quale che sia la loro classe di appartenenza. Esse, le donne, condividono con tutti i poveri fragilità e mali ma, in più, sono prevalentemente brutalizzate dalla loro rozza riduzione a “sesso”.

Ma qualcuno ha fatto notare che la figura della donna, anche della madre, è spesso villana, feroce, carica di violenza; il loro linguaggio è crudo, diretto. E’ vero. Ma da questo si può dedurre non solo lo sforzo della rappresentazione veritiera e priva di qualsiasi velo ipocrita da parte del poeta, ma anche e soprattutto l’intuito che lo spinge a cogliere nella sfrenatezza e nell’eccesso della parola la fondamentale debolezza della condizione femminile, l’impossibilità delle donne di adoperare una vera forza e, dunque, lo stravolgimento violento di chi si sa vinto e conosce, nell’inutilità brutale del proprio linguaggio, una ribellione senza speranza. Questo spiega anche, secondo me, l’ossessiva presenza del sesso che caratterizza questi personaggi femminili. Gli attributi sessuali, in un linguaggio duro concreto senza eufemismi, testimoniano di questa unica identità della donna, identità consapevole fino alla brutalizzazione di sé. Dai sonetti (“La puttana abbruciata, Li fiori de Nina”) in cui inutilmente le donne lamentano che la colpa del “contagio, del mal francese” ricada sempre su di loro a tutta una serie di prostitute che testimoniano, con la loro affollata presenza in città “er primo gusto der monno”, la rozzezza del desiderio maschile (favorito a Roma da un governo che sa di dover compiacere a frotte di pellegrini e a migliaia di prelati sfaccendati e danarosi), fino al commovente ingenuo tentativo delle prostitute di salvarsi, di ritrovare una loro dignità, nella capacità di rispettare una regola, interrompendo il mestiere per “annà a le quarantora”, o tenendo fede al voto fatto “a la Madonna de l’Archetto”, o perfino concedendosi gratis in suffragio di quell’anime sante e benedette. Una pietas, quella di Belli, nei confronti delle donne, che si intravede infine, attraverso la condizione degradata delle loro persone a solo oggetto del desiderio sessuale maschile, nell’orrore con cui viene descritta la loro vecchiaia: “Viè a vedé le bellezze de mi’ nonna./ Ha du’ parmi de pelle sott’ar gozzo:/ è sbrozzolosa come un maritozzo;/ e trìttica più peggio d’una fronna…/ Bracc’ e gamme so’ stecche de ventajo;/ la voce pare un son de raganella;/ le zinne, borse da colacce er quajo./ Be’, mi’ nonna da giovane era bella…”.  Qualcuno ha suggerito che la poesia scritta dalle donne nel tempo nostro “parla veloce”. Io preferisco ricordare un verso di Sandro Penna: “Non c’è più quella grazia fulminante / ma il soffio di qualcosa che verrà”.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nei quali possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992; Belli, “Tutti i sonetti”, a cura di P. Gibellini e collaboratori, Einaudi, quattro volumi, 2019.

 

                   La moje disperata            16 marzo 1834

 

Di’, animaccia de Turco: di’, vassallo:

Di’, coraccio d’arpìa, testa de matto:

Nun t’abbasta no er male che m’hai fatto,

Che me vòi stracinà ppropio a lo spallo?!                      4

 

Arzà le mano a me?! diavolo, fàllo!

Pròvece un po’, che do de mano a un piatto

E com’è vero Cristo te lo sbatto

Su quela fronte che ciài fatto er callo.                                      8

 

Nun vòi dà ppane a me, brutto caroggno?

Portelo ar meno a st’anime innocente

Che spireno de freddo e de bisoggno.                              11

 

Tira avanti accusì: fàlle ppiù brutte,

Dio nun paga oggni sabbito, Cremente;

Ma ppoi viè quella che le sconta tutte.                            14

 

Metro: sonetto (ABBA, ABBA, CDC, EDE).

 

                                      La moglie disperata

Parla, animaccia di turco: parla, delinquente: parla, cuoraccio di arpia, testa di matto: non ti basta, no, il male che mi hai fatto, che mi vuoi trascinare proprio alla morte (a Roma questa era una metafora presa dal gioco delle carte, e voleva dire: passare ogni segno). Alzare le mani su di me?! Diavolo, fallo. Provaci un po’, che do di piglio a un piatto e, come è vero Cristo, te lo sbatto su quella fronte che si è incallita per la tua cattiveria. Non vuoi dare il pane a me, brutta carogna? Portalo almeno  a queste anime innocenti dei tuoi figli che muoiono di freddo e di bisogno. Tira avanti così: fai delle cose ancora più brutte. Dio non paga ogni sabato (è un proverbio), Clemente; ma poi arriva quella volta in cui le sconti tutte.

 

Analisi.

I versi dovrebbero essere declamati con forza rabbiosa mista a pianto, con una dizione concitata. E’ lo sfogo di una donna esasperata, che sta litigando col marito e lo sta affrontando con veemenza. Il nostro poeta, cronista attento, sta curando la messa in scena: i protagonisti sono in casa e le urla stanno animando il vicinato. L’impaginazione attenta è quella di un monologo drammatico: ogni strofa comincia con una frase provocatoria, pronunciata dalla moglie e rivolta –con ritmo incalzante- al marito: dì, animaccia de turco: dì, vassallo (v. 1), ripetuta in anafora, dì, coraccio d’arpìa (v. 2); nun t’abbasta no (v. 3); arzà le mano a me? (v. 5), pròvece un po’ (v. 6); nun vòi dà ppane a me (v. 9); portelo ar meno a st’anime innocente (v. 10); tira avanti accusì (v. 12). Ma alla fine, come quasi sempre avviene nelle storie belliane che hanno come protagoniste le donne, tutto si acqueta nella sopportazione confortata dalla fede nel giudizio del Signore Dio.

Belli parte da una miriade di dettagli e sfumature che giacciono inerti nel gran rumore della vita, e per il solo fatto di metterli insieme in un certo ordine, scegliendo quelli e non altri, dando loro una gerarchia e un ritmo, fa sgorgare da un caso apparentemente insignificante la trama di un racconto che ci appassiona. In questo caso non c’è lieto fine perché la solitudine sofferente è un destino degli esseri umani a cui nessuno sfugge mai del tutto, nemmeno i poeti e gli scrittori che creano donne e uomini di carta.

 

Il giorno dopo, il 17 marzo, Belli scrive, a contraltare, questo sonetto:

 

                                               La bona moje

 

Be’, so contenta, sì: va’, Sarvatore:

Fa’ come vòi e quer ch’Iddio t’ispira.

Anzi, io direbbe de portà Diomira,

Ch’è in d’un’età da intenerije er core.                              4

 

Bùtteteje a li piedi a l’esattore:

Prega, marito mio, piaggne, sospira:

Bada però che nun te vinchi l’ira…

Lassamo fa: ce penzerà er Ziggnore.                               8

 

Si tte caccia, nun famme la siconna.

Ricordete in quer caso c’hai famija:

Soffrilo pe l’amor de la Madonna.                                   11

 

Ce semo intesi eh Sarvatore mio?

Va’, ch’Iddio t’accompagni. Un bacio, fija.

Addio: fa’ ppiano pe le scale: addio.                                14

 

Beh, sono contenta, sì: va, Salvatore: fai come vuoi, seguendo quello che Dio ti suggerisce. Anzi, io direi di portare nostra figlia Diomira, che è in un’età che potrebbe intenerirgli il cuore. Bùttati ai piedi dell’esattore: prega, marito mio, piangi, sospira: attento però a non farti vincere dalla rabbia… Lasciamo fare: ci penserà il Signore Gesù. Se ti caccia, non farmi la seconda di quello che già hai fatto una volta (un atto di ribellione). Ricordati in quel caso che hai famiglia: sopportalo per amore della Madonna. Ci siamo capiti, eh, Salvatore mio? Va, che Dio ti accompagni. Un bacio, figlia mia. (Evidentemente il marito aveva deciso di portare Diomira). Addio: fai piano per le scale: addio.

                                                                  Gennaro  Cucciniello