Nel “Memoriale” di Aldo Moro, prigioniero delle Brigate Rosse
Il documento, scritto a mano dal prigioniero durante il sequestro, nel 1978, da sempre considerato la chiave dei 55 giorni più oscuri della Repubblica, approda a una nuova edizione critica. Che restituisce allo Statista ucciso il suo tempo e la sua scrittura.
Il settimanale “L’Espresso”, nel numero del 10 novembre 2019, alle pp. 66-72, pubblica questo interessantissimo articolo di Marco Damilano. “Il Memoriale di Aldo Moro” (pp. 596, € 60) esce in una nuova edizione critica a cura di Francesco M. Biscione, Sergio Flamigni, Miguel Gotor, Ilaria Moroni, Antonella Padova, Stefano Twardzik, coordinati da Michele Di Sivo, pubblicato dalla Direzione Generale Archivi-De Luca Editori d’Arte. Il volume, frutto di un lavoro durato cinque anni, contiene l’integrale digitalizzazione del memoriale online (in archivi.beniculturali.it), la trascrizione di parti significative dei fogli del corpus, saggi e note filologiche e storiche. Damilano è anche autore di un recente saggio sul caso Moro, “Un atomo di verità”, Feltrinelli. Un altro saggio interessante in uscita in questi giorni è anche quello di Miguel Gotor, “Il Memoriale della Repubblica”, Einaudi, pp. 596, euro 16. Gotor si interroga, tra l’altro, su un punto delicato: se le Brigate Rosse avessero voluto uccidere Moro e basta lo avrebbero fatto a via Fani, non avrebbero aspettato 55 giorni. Invece volevano soprattutto distruggerne la credibilità politica e la moralità personale perché il suo disegno strategico rimanesse senza eredi.
Pubblico nel Sito questo articolo nei giorni che ci vedono forzatamente rinchiusi in casa dall’epidemia di coronavirus. Siamo lontanissimi dalla crudele esperienza della prigione nella quale Moro fu recluso per 55 lunghissimi giorni ma vicini –come mai prima d’ora- a una vita quotidiana diversa dalla routine precedente, a una vita in un certo modo educativa. Forse abbiamo il tempo di valutare meglio i fatti convulsi e confusi della vita nostra e degli altri, il loro ritmo, il loro ordine. Forse siamo invasi da un’inquietudine difficile da placare e subiamo la spinta ad un riesame globale e sereno delle nostre esperienze, oltre che umane, sociali e politiche, proprio come accadde al Moro recluso nella prigione delle Brigate Rosse. Forse scopriremo nuove e sorprendenti possibilità, generate dal contatto col fondamento ultimo della nostra vita, la morte. Forse la presa di coscienza della fragilità e della caducità della vita ci spronerà a fissare nuove e più importanti priorità, a riflettere sulla centralità di essere una comunità solidale, noi che ci siamo abituati a sopravvalutare i diritti individuali e a trascurare i doveri sociali. Forse…
Gennaro Cucciniello
La scrittura e il tempo. Erano queste le uniche armi, fragili, su cui poteva contare l’uomo di Stato spogliato del suo potere, diventato prigioniero, nel cuore del terrore, come lo immaginò Italo Calvino, nelle mani dei suoi carcerieri e delle forze esterne al covo che si muovevano per condizionare gli esiti del sequestro di cui sapeva, lui soltanto, decifrare i fili invisibili. Scrivere per prendere tempo, come in una favola antica, e prendere tempo per scrivere, come in una lenta caduta in cui si sono avvinghiati, una volta per tutte, in un solo destino, la storia della Repubblica e il dramma di una persona. “Saper leggere il libro del mondo, con parole cangianti e nessuna scrittura, nei sentieri costretti in un palmo di mano, i segreti che fanno paura”, è il testo di una canzone di Fabrizio De André, che viene in mente recuperando oggi, finalmente ricomposte con rigore scientifico, con dedizione e con umanità, le parole di Aldo Moro nel memoriale consegnato alle Brigate Rosse più di quarant’anni fa, durante i 55 giorni del sequestro, dal 16 marzo 1978, il giorno del rapimento a Roma in via Mario Fani e della strage dei cinque agenti della scorta, al 9 maggio, quando il cadavere del presidente della Democrazia Cristiana fu ritrovato nel bagagliaio di una Renault rossa in via Michelangelo Caetani.
Il cosiddetto Memoriale di Moro fu scoperto in forma dattiloscritta e parziale nell’ottobre 1978, in un covo delle Br a Milano, in via Montenevoso, e poi, dodici anni dopo, nel 1990, rispuntò da un’intercapedine dello stesso appartamento in forma autografa e fotocopiata, dando il via a una serie infinita di congetture. E’ considerato una delle chiavi possibili dei misteri del caso Moro, i segreti che fanno paura, quelli che il prigioniero minacciava di svelare, quelli legati al possesso del manoscritto originale che nel corso dei decenni avrebbe giustificato altre guerre di potere e il sospetto di altre morti e altro sangue.
Oggi, a distanza di più di quarant’anni, il Memoriale viene pubblicato dalla direzione generale Archivi del ministero dei Beni culturali e dall’archivio di Stato di Roma in una nuova edizione critica, grazie al lavoro di cinque anni di un gruppo di studiosi, coordinati da Michele Di Sivo, vicedirettore dell’Archivio di Stato di Roma, esperto di fonti giudiziarie: gli storici Francesco Biscione e Miguel Gotor e l’ex senatore Sergio Flamigni, che in passato del memoriale hanno curato edizioni e pubblicazioni, Ilaria Moroni, direttrice dell’archivio Flamigni che conserva le carte personali dell’uomo politico, la grafologa Antonella Padova, l’archivista Stefano Twardzik. La storia, la filologia, la freddezza dell’analisi per un testo rovente consentono il passaggio fondamentale, definitivo, per la comprensione di quanto accadde nel 1978, nella vicenda spartiacque della nostra storia.
“Il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro ruotano attorno a una sola azione dell’ostaggio: il suo scrivere”, afferma Di Sivo nell’introduzione. Le lettere, pensate dall’ostaggio per comunicare con l’esterno, utilizzate dai terroristi come arma di pressione, rese pubbliche o tenute segrete ovvero mai consegnate. E il Memoriale, fino ad ora considerato come il testo con cui Moro rispondeva alle domande dei suoi carcerieri, nel grottesco processo del popolo annunciato dalle Br nei loro comunicati: i 239 fogli ritrovati in fotocopia in via Montenevoso nel 1990, parte di un corpus di documenti più ampio, 420 fogli tra lettere e biglietti mai consegnati. Ricostruire il testo, in fotocopie rovinate e per di più mutilate dai prelievi della polizia scientifica, tondini conservati in buste, come coriandoli. Ricostruire le modalità di stesura del prigioniero e le condizioni in cui Moro scriveva. “Ricostruire l’elaborazione da cui le scritture di Moro furono originate e il loro disporsi nel tempo, riconoscere il testo più prossimo alle intenzioni di un autore inquisito e condizionato da pieno dominio e da totale cattività, accostarsi alla tortuosa morfologia di questa fonte sono stati i nostri obiettivi”, spiega Di Sivo.
La grafologa Antonella Padova rivela che nel 1970 Moro si era rivolto a un medico psico-grafologo, Tonino Bellato, per risolvere un problema pratico, solo in apparenza banale: i suoi più stretti collaboratori non riuscivano a decifrare la sua scrittura, un impaccio non da poco perché Moro usava buttare giù a mano i discorsi e gli articoli, per poi arrivare alla stesura definitiva dopo una serie infinita di correzioni, integrazioni, cancellature, ricopiature. Tra i testi presi a paragone c’è l’intervista che il nostro Guido Quaranta gli fece nell’agosto del 1972 per “Panorama”, dove la grafia ordinatissima di Quaranta convive sullo stesso foglio con l’appunto del leader politico: “Ho raggruppato le domande, collegando quelle affini. I numeri a margine sono quelli delle mie risposte, che seguono, mi pare, un ordine logico. Ho messo “no” per le domande cui non intendo rispondere. L’intervista è già lunghissima”. Una notazione preziosa perché per gli studiosi questo fu lo stesso metodo utilizzato da Moro per rispondere ai suoi carcerieri. Raggruppare, ricopiare, riscrivere. Un lavoro meticoloso che ora consente di dare una risposta finale alla questione dell’autenticità degli scritti e della possibilità che Moro fosse stato drogato o costretto a scrivere messaggi non suoi. Paragonati (in modo emozionante) con l’ultima nota a mano da uomo libero, la firma del libretto del professore universitario con l’argomento della lezione (15 marzo 1978: La recidiva. All’agguato di via Fani mancavano meno di 24 ore, le caselle delle lezioni numero 41 e 42 del professor Moro, docente di Istituzioni di diritto e procedura penale resteranno per sempre vuote), i fogli dalla prigionia portano a osservazioni molto lontane da quelle della grafologa Giulia Conte Micheli che giudicò la grafia di Moro “abulica, passiva, inerte”, segno di “uno stato depressivo di angoscia interiore”. Moro per primo aveva intuito di essere finito in una trappola nella trappola: se la sua scrittura fosse apparsa nervosa lo avrebbero fatto passare per un pazzo incapace di ragionare, se troppo ordinata come il diligente copista di testi scritti da altri. Protestava nelle sue lettere con i suoi compagni di partito: “Scrivo con il mio stile, per brutto che sia, ho la mia solita calligrafia. Ma sono, si dice, un altro e non merito di essere preso sul serio”. E ancora: “Moro insomma non è Moro… Per qualcuno la ragione di dubbio è nella calligrafia, incerta, tremolante, con un’oscillante tenuta delle righe. Il rilievo è ridicolo, se non provocatorio. Pensa qualcuno che io mi trovi in un comodo e attrezzato ufficio ministeriale o di partito? Io sono, sia ben chiaro, un prigioniero politico ed accetto senza la minima riserva, senza né pensiero, né un gesto di impazienza la mia condizione. Pretendere però in queste circostanze grafie cristalline e ordinate e magari lo sforzo di una copiatura significa essere fuori dalla realtà delle cose”.
“Lo studio dei comportamenti grafomotori consente di restituire ad Aldo Moro non solo l’autografia ma anche la paternità dell’impianto generale” del Memoriale, arrivano a dire gli studiosi. Sono di Moro i brani, le correzioni, l’ordine delle domande e delle risposte. Sua l’interna organizzazione del discorso. Sua, e non dei carcerieri, la struttura del Memoriale. Ricostruita la cronologia del testo si arriva ad altre due conclusioni decisive. La prima: i rinvii interni al testo trovano la loro sistemazione, come un enigma che si scioglie. E l’attività grafomotoria del prigioniero evidenzia il cambiamento del piano d’appoggio su cui scrivere, orizzontale nei primi testi, e dunque il mutamento logistico delle condizioni di scrittura nella seconda fase del sequestro.
Il testo del Memoriale appare ora nella sua integrità, anche con correzioni notevoli. “Lei sbaglia da sempre e sbaglierà sempre perché costituzionalmente chiamato all’errore. E l’errore è, in fondo, senza cattiveria”, sembrava aver scritto Moro del capo doroteo Flaminio Piccoli, suo avversario interno nella Dc. Ma ora la frase diventa: “E l’errore è, in fondo, sempre cattiveria”. Che non è la stessa cosa.
Il Memoriale consente di penetrare nella scrittura di Moro, nella sua materialità. Le penne utilizzate, la pressione sulla carta, la povera carta straccia di cui sono rimaste le fotocopie che odorano di ciano. Entrare nel covo delle Br. E ancora di più, entrare nell’interiorità, nello stato d’animo di Moro. L’ottimismo e il pessimismo, le salite, le discese, il precipitare delle speranze, il senso di morte e l’attesa della liberazione che è evidente in una pagina drammatica: “Il periodo, abbastanza lungo, che ho passato come prigioniero politico delle Brigate Rosse, è stato naturalmente duro, com’è nella natura delle cose, e come tale educativo”. In quelle stesse righe Moro spiega di aver avuto il tempo di valutare gli avvenimenti, spesso così tumultuosi della vita politica e sociale, il loro ritmo, il loro ordine. “Motivi critici, diffusi ed inquietanti, che per un istante avevano attraversato la mente, si ripresentavano, nelle nuove circostanze, con una efficacia di persuasione di gran lunga maggiore che per il passato. Ne derivava un’inquietudine difficile da placare e si faceva avanti la spinta ad un riesame globale e sereno della propria esperienza, oltre che umana, sociale e politica”.
Si può così rileggere di seguito il testo del Memoriale carico di rimandi, come le uniche pagine diffuse durante i 55 giorni del sequestro, quelle relative al ruolo di Paolo Emilio Taviani, l’ex ministro democristiano che nel 1978 aveva un ruolo secondario ma che invece, da ministro della Difesa nel 1956, aveva fondato la struttura Stay-behind Gladio per operazione di difesa e anti-guerriglia in caso di invasione sovietica, ma di questo si venne a sapere soltanto all’inizio degli anni Novanta, proprio mentre il memoriale di Moro riemergeva dall’intercapedine di via Montenevoso, resistente come il muro di Berlino. E trovare in quel memoriale la spiegazione dell’ordine politico che sarebbe arrivato negli anni successivi, in un’epoca distante dalla sua. Quell’uomo che scriveva in condizioni di prigionia, a rischio della vita, aveva visto molte cose del futuro.
La fine della rappresentanza dei partiti e l’emergere di un’organizzazione leggera, nella politica interna e internazionale. L’impossibilità dei partiti ad auto-riformarsi che avrebbe portato a scaricare la colpa dell’impasse sulle istituzioni e sulla Costituzione. “Ogni volta che c’è una difficoltà politica obiettiva, sembra sbucare lo strumento elettorale che dovrebbe permettere di superarla… in generale si può dire che si tratta di false soluzioni di reali problemi politici e che è opportuno non farsi mai delle illusioni. Non si accomodano con strumenti artificiosi situazioni obiettivamente contorte”. Intuiva “il nerbo della nuova economia, assunto come condizione di efficienza, l’imprenditorialità privata e anche pubblica con opportuna divisione del lavoro”, la riduzione dell’Europa a dimensione regionale operata dagli Stati Uniti. Sfogliava le sorti future della stampa italiana che “costituisce un enorme problema sia per quanto riguarda il suo ordinamento e sviluppo, sia per quanto riguarda la sua indipendenza… Il Paese è così dominato da cinque o sei testate. Questi giorni hanno dimostrato come sia facile chiudere il mercato delle opinioni. Non solo non troverai opinioni, ma neppure notizie. Forse è questo un aspetto particolare di una crisi economica, che non può non essere anche una crisi editoriale. Infatti su 20-25 seri giornali è difficile bloccare; su 5 o 6 sì…” Guardava l’evoluzione futura della società italiana che avrebbe cambiato la politica: “Per chi abbia visto il film di R. Faenza “Forza Italia”, fa impressione il linguaggio, a dir poco estremamente spregiudicato, che i democristiani usano al Congresso tra un applauso e l’altro all’on. Zaccagnini. Sono modi di dire e di fare che un tempo sarebbero apparsi inconcepibili. Oggi sono accettati e mettono in moto una sovrastruttura politica che presumibilmente, poiché le cose non nascono a caso, corrisponde all’esigenza di una parte almeno della società italiana di oggi”. In quella scena del film di Roberto Faenza che Moro aveva visto al cinema (fu ritirato dalle sale il giorno del suo sequestro), un montaggio di immagini e sonori in cui i notabili di governo uscivano a pezzi, i delegati del congresso democristiano venivano alle mani, si affrontavano come nemici che non avevano più nulla in comune, si scambiavano i Vaffa pur essendo dello stesso partito. Era già l’immagine del tutti contro tutti: nel cambiamento del linguaggio il prigioniero Moro coglieva una mutazione, un’esigenza della società italiana. E lo scrisse nel covo delle Brigate Rosse, come una premonizione, non potendo sapere che sedici anni dopo sarebbe nato un partito chiamato Forza Italia, e che -più di trenta anni dopo- un altro sarebbe stato originato da un vaffa-day, entrambi tutt’altro che estranei a quella spregiudicatezza, a quell’esigenza della società italiana, perché le cose non nascono a caso.
Inoltrarsi in quelle pagine, come ha fatto l’attore Fabrizio Gifuni che lo ha portato a teatro ritrovandone gli echi di Pasolini e di Gadda, attraversare il Memoriale di Moro e della Repubblica significa provare a comporre con pietà le parole del condannato a morte e ridare vita a chi le ha scritte con disperazione e con fiducia, perché la scrittura è sempre un atto di apertura, e soprattutto continuare a compiere un passo essenziale per capire l’Italia di oggi. Strappare Moro dal caso Moro e restituirgli il suo onore politico e la sua dignità umana perché, come conclude Michele Di Sivo, “quella rappresentazione, così ricostruita, sembra dirigere il lettore verso una vertigine: il Memoriale di Moro si squaderna come l’ultimo atto della storia che si rivela”.
Pochi giorni prima dell’esecuzione Moro aveva scritto a Zaccagnini, segretario della Dc, una lettera dai toni drammatici e ultimativi: “Se voi non intervenite sarebbe scritta una pagina agghiacciante nella storia d’Italia. Il mio sangue ricadrebbe su di voi, sul partito, sul Paese. Pensateci bene, cari amici. Siate indipendenti. Non guardate al domani, ma al dopodomani”. Uno sguardo lungo che si spinge fino all’orizzonte delle compatibilità di allora. Moro mette in guardia i suoi interlocutori: se mi uccidono non può reggere più l’equilibrio che ha permesso e garantito lo sviluppo del dopoguerra, nulla sarà più come prima e la stessa difesa della Dc rischia di essere travolta da sentimenti e reazioni incontrollabili.
Così al tramonto traumatico della stagione del compromesso storico segue un’incerta ricerca di nuovi equilibri, con numeri e progetti politici irrealistici e insufficienti e con la persistenza dell’ombra di Moro che condizionerà la politica e l’insieme della democrazia italiana.
Marco Damilano