Belli. Sonetti. “La pisciata pericolosa”

Belli. Sonetti. “La pisciata pericolosa”, 13 settembre 1830

La Roma raccontata dal Belli è la Roma dei sei papi che regnarono nei settantadue anni (1791-1863) nei quali egli visse, anni di enormi agitazioni, di grandi rivoluzioni politiche, di un frenetico andirivieni tra occupazioni militari e restaurazioni, in una città sordida e spopolata, abitata da plebi –con quelle di Napoli- tra le più incolte e ciniche che ci fossero allora in Italia. Il poeta ritrae questa città che si lascia vivere con indolenza mentre si diffonde la consapevolezza che lo Stato della Chiesa è diventato ormai un anacronismo.

Già in un sonetto del 1832 (“Li punti d’oro”) Belli aveva scritto: “Cusì viengheno a dì li giacubini,/ ar gran sommo pontefice Grigorio:/”che te fai de li stati papalini,/ dove la vita tua pare un mortorio?”. Non fu così facile, comunque, liberarsi di questi “stati papalini”. Ancora nel 1862 trecento vescovi reclamarono che il potere temporale dei papi era una necessità voluta direttamente dalla Provvidenza divina (un parallelo blasfemo con il centro-destra italiano che, nel 2011, solennemente ha votato in Parlamento –per difendere la crapula di papi-Berlusconi- che la prostituta minorenne Ruby era nipote di Mubarak?). Affermazioni impegnative per questi vescovi, un anno dopo la proclamazione dell’Unità d’Italia.

Non si dimentichi che papa Gregorio XVI, che tanto piaceva a Belli, era il papa che nell’enciclica “Mirari vos” del 1832 aveva scritto tra l’altro: “E’ un vaneggiamento che ognuno debba avere libertà di coscienza, a questo nefasto errore conduce quell’inutile libertà d’opinione che imperversa ovunque”. “La sessantina di sonetti dedicati a questo papa rendono bene, nell’insieme, l’idea che il popolo romano poteva avere del papa-re: da una parte la fede cristiana, anche se spesso rappresentata dal poeta come superstizione, fa rimanere salda la componente religiosa della figura del papa, come successore di Pietro e Cristo in terra; ma i romani, proprio per la vicinanza fisica con l’uomo che ad un certo punto diventa papa e la diretta conoscenza dei meccanismi per nulla spirituali che lo portano all’elezione al pontificato, lo giudicano anche come individuo e lo temono come governante che impone le gabelle e commina le condanne, come capo della fatiscente società del putrido Stato pontificio”.

Alla fine, quando al soglio di Pietro salirà Pio IX – che si stava acquistando fama di “liberale”-, Belli –in un sonetto del gennaio 1847, scriverà un testo con un attacco grandiosamente reazionario: “No, sor Pio, pe’ smorzà le turbolenze,/ questo qui non è er modo e la magnera./ Voi, padre santo, nun n’avete cera,/ da fa’ er papa sarvanno le apparenze./ La sapeva Grigorio l’arte vera / de risponne da Papa a l’insolenze./ Vonno pane? Mannateje indurgenze;/ vonno posti? Impiegateli in galera”.

Nell’Introduzione alla sua opera Belli aveva spiegato i motivi che lo avevano spinto a scegliere per i suoi testi la forma del sonetto: egli voleva costruire tanti quadretti distinti, soprattutto per raggiungere due scopi: il lettore doveva accostarsi alla raccolta senza nessun impegno di dover continuare nella lettura; il poeta doveva usare una forma in sé conclusa in un veloce giro di versi, perché la realtà descritta si concentra tutta in brevi episodi, in azioni e battute di spirito, tanto più efficaci in quanto si esauriscono nel momento in cui sono colti.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio nei quali possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992. Belli, Sonetti, a cura di Gibellini, Felici, Ripari, edizione critica, Einaudi, 2018.

La pisciata pericolosa 13 settembre 1830

Stavo a ppiscià jerzera lì a lo scuro

Tra Madama Lugrezzia e ttra Ssan Marco,

Quann’ecchete, affiarato com’un farco,

Un sguizzero der Papa duro duro. 4

De posta me fa sbatte er cazzo ar muro,

Poi vò levamme er fongo: io me l’incarco:

E con la patta in mano pijo l’Arco

De li tre Re, strillanno: “Vienghi puro”. 8

Me sentivo quer frocio dì a le tacche

Cor fiatone: “Tartàifel, sor paìne,

Pss, nun currete tante, ché sso stracche”. 11

Poi co mill’antre parole turchine

Ciangottava: “Viè qua, ffije te vacche,

Che ppeveremo un pon picchier te vine”. 14

Metro: sonetto (ABBA, ABBA, CDC, DCD).

La pisciata pericolosa

Ieri sera stavo a pisciare in quell’angolo buio, tra il busto mutilato di Madama Lucrezia (un’antica statua colossale) e il muro della chiesa di San Marco (nei pressi di piazza Venezia), quand’ecco –avventato come un falco- mi s’avvicina una guardia svizzera con una mossa minacciosa (le guardie, armate di alabarda, erano state messe dal papa davanti a varie chiese, perché all’interno facessero rispettare il culto, scacciassero i cani, e all’esterno impedissero “le indecenti soddisfazioni dei bisogni naturali”). A prima giunta mi fa sbattere il cazzo contro il muro, poi vuole levarmi il cappello: io me lo calco in testa più decisamente: e con la parte anteriore dei calzoni in mano fuggo sotto l’Arco dei Tre Re strillando: “Venga pure”. Sentivo quel tedesco dirmi alle spalle, col fiatone: “Tartaifel”, (corruzione di der Teufel, Diavolo), signore, Pss, non correte tanto, perché sono stanco”. Poi con tante altre parole incomprensibili ci aggiungeva: “Vieni qua, figlio d’una vacca, che berremo insieme un buon bicchiere di vino”.

Le quartine.

Le due strofe fanno da introduzione topografica, servono a inquadrare il contesto urbanistico in cui si svolge il fatto increscioso. Il racconto è narrato da uno dei due protagonisti, con un ritmo incalzante che riproduce la velocità dell’azione. E’ buio, siamo nella parte nord di piazza Venezia prima che tutta la zona venisse alterata e distrutta dalla costruzione del mausoleo dell’Altare della Patria. Un popolano sta preparandosi in un angolo a fare una pisciatina, una guardia svizzera di custodia sta facendo il suo mestiere. Due particolari, però, ci inquadrano l’avvenimento dal punto di vista del popolano: la guardia è “affiarata come un farco” ed è “duro duro”, tanto che fa sbattere il nostro col cazzo ar muro”. Bisogna convenire che la scena è irresistibile; il popolano fugge nella notte reggendosi i calzoni e tuttavia riesce ancora a fare lo sbruffone approfittando della lentezza della guardia svizzera.

Le terzine.

Belli non fa nulla per rendere simpatico il nostro popolano piscione; il comico nasce sia dall’imprevedibilità della grottesca situazione, sia dal linguaggio dello svizzero, un curioso misto di tedesco e romanesco, del tutto funzionale al contesto. E’ un gustoso pastiche: vale la prova dello stile, il gusto della deformazione linguistica, una specie di cicalata polifonica.

Tre giorni prima, il 10 settembre 1830, Belli cronachizza:

Er funtanone de piazza Navona

Quann’era vivo er nonno de la zia

Der compare der zocero de Nina,

Qua da Piazza Navona a Tormellina

Ciassuccesse un tumurto e un parapia. 4

Pe causa che un’orrenna carestia

De punt’in bianco un giuveddì a matina

Mannò a quattro boécchi la vaccina,

Senza nemmanco dì Gesù e Maria. 8

T’abbasti a dì ch’edè la ribbijone,

Che cor una serciata a quer pupazzo

Je feceno sartà netto er detone. 11

Chi dà la corpa a un boccio, chi a un regazzo:

Ma er fatt’è che quell’omo ar funtanone

Pare che dichi: “A voi; quattro der cazzo!”. 14

La fontana dei fiumi a piazza Navona

Quando era vivo il nonno della zia del compare del suocero di Nina, qui nella piazza Navona di Torre Millina (detta dalla famiglia Millini) ci successe un tumulto e un parapiglia. A causa di un’orrenda carestia che all’improvviso un giovedì mattina (era il giorno in cui si macellava) fece salire a quattro baiocchi la carne di vacca immediatamente, senza nemmeno riuscire a dire Gesù e Maria. Basti ciò per dire cosa fu quella ribellione, che con una sassata a una delle quattro statue della fontana (che rappresentano i quattro fiumi principali della Terra) gli fecero saltar via di netto il pollicione. Chi dà la colpa a un vecchio chi a un ragazzo: fatto sta che quell’omone scolpito nel fontanone sembra che dica: “A voi (stronzi): solo per quattro baiocchi (il prezzo aumentato della carne) m’avete così danneggiato!”.

Gennaro Cucciniello