Belli. Sonetti. “L’aricreazzione”

Belli. Sonetti. “L’aricreazzione”

La Roma raccontata dal Belli è la Roma dei sei papi che regnarono nei settantadue anni (1791-1863) nei quali egli visse, anni di enormi agitazioni, di grandi rivoluzioni politiche, di un frenetico andirivieni tra occupazioni militari e restaurazioni, in una città sordida e spopolata, abitata da plebi –con quelle di Napoli- tra le più incolte e ciniche che ci fossero allora in Italia. Il poeta ritrae questa città che si lascia vivere con indolenza mentre si diffonde la consapevolezza che lo Stato della Chiesa è diventato ormai un anacronismo.

Già in un sonetto del 1832 (“Li punti d’oro”) Belli aveva scritto: “Cusì viengheno a dì li giacubini,/ ar gran sommo pontefice Grigorio:/”che te fai de li stati papalini,/ dove la vita tua pare un mortorio?”. Non fu così facile, comunque, liberarsi di questi “stati papalini”. Ancora nel 1862 trecento vescovi reclamarono che il potere temporale dei papi era una necessità voluta direttamente dalla Provvidenza divina (un parallelo blasfemo con il centro-destra italiano che, nel 2011, solennemente ha votato in Parlamento –per difendere la crapula di papi-Berlusconi- che la prostituta minorenne Ruby era nipote di Mubarak?). Affermazioni impegnative per questi vescovi, un anno dopo la proclamazione dell’Unità d’Italia.

Non si dimentichi che papa Gregorio XVI, che tanto piaceva a Belli, era il papa che nell’enciclica “Mirari vos” del 1832 aveva scritto tra l’altro: “E’ un vaneggiamento che ognuno debba avere libertà di coscienza, a questo nefasto errore conduce quell’inutile libertà d’opinione che imperversa ovunque”. “La sessantina di sonetti dedicati a questo papa rendono bene, nell’insieme, l’idea che il popolo romano poteva avere del papa-re: da una parte la fede cristiana, anche se spesso rappresentata dal poeta come superstizione, fa rimanere salda la componente religiosa della figura del papa, come successore di Pietro e Cristo in terra; ma i romani, proprio per la vicinanza fisica con l’uomo che ad un certo punto diventa papa e la diretta conoscenza dei meccanismi per nulla spirituali che lo portano all’elezione al pontificato, lo giudicano anche come individuo e lo temono come governante che impone le gabelle e commina le condanne, come capo della fatiscente società del putrido Stato pontificio”.

Alla fine, quando al soglio di Pietro salirà Pio IX – che si stava acquistando fama di “liberale”-, Belli –in un sonetto del gennaio 1847, scriverà un testo con un attacco grandiosamente reazionario: “No, sor Pio, pe’ smorzà le turbolenze,/ questo qui non è er modo e la magnera./ Voi, padre santo, nun n’avete cera,/ da fa’ er papa sarvanno le apparenze./ La sapeva Grigorio l’arte vera / de risponne da Papa a l’insolenze./ Vonno pane? Mannateje indurgenze;/ vonno posti? Impiegateli in galera”.

Nell’Introduzione alla sua opera Belli aveva spiegato i motivi che lo avevano spinto a scegliere per i suoi testi la forma del sonetto: egli voleva costruire tanti quadretti distinti, soprattutto per raggiungere due scopi: il lettore doveva accostarsi alla raccolta senza nessun impegno di dover continuare nella lettura; il poeta doveva usare una forma in sé conclusa in un veloce giro di versi, perché la realtà descritta si concentra tutta in brevi episodi, in azioni e battute di spirito, tanto più efficaci in quanto si esauriscono nel momento in cui sono colti.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio nei quali possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992. Belli, Sonetti, a cura di Gibellini, Felici, Ripari, edizione critica, Einaudi, 2018.

“L’aricreazzione” 2 giugno 1835

Detta ch’er Papa ha messa la matina,

E empite le santissime budelle,

Esce in giardino in buttasù e ppianelle

A ppijà ‘na boccata d’aria fina. 4

Lì legato co certe catenelle

Ce tiè un brutto ucellaccio de rapina,

E, drento a una ramata, una ventina

O du’ duzzine ar più de tortorelle. 8

Che ffa er zant’omo! ficca drento un braccio,

Pija ‘na Tortorella e la conzeggna

Ridenno tra le granfie a l’ucellaccio. 11

Tutto lo spasso de Nostro Siggnore

E’ de vedé quela bestiaccia indeggna

Squarciaje er petto e rosicaje er core. 14

Metro: sonetto (ABBA, BAAB, CDC, EDE).

                                                          La ricreazione

Dopo che il Papa ha detto la messa mattutina, e aver fatto colazione (riempiendo il santissimo intestino), esce in giardino in veste da camera e pantofole a respirare una boccata d’aria pulita e fresca. Lì, nel giardino, legato con delle catenelle, ci tiene un brutto uccellaccio feroce, e, dentro una rete per chiudere gli uccelli, una ventina o due dozzine al più di tortorelle. Che fa il sant’uomo! ficca nella voliera un braccio, piglia una Tortorella e ridendo la consegna agli artigli dell’uccellaccio. Tutto il divertimento del Nostro Signore consiste nel vedere quella indegna bestiaccia squarciare il petto della Tortorella e rodergli il cuore.

Analisi.

Il critico Morandi ha scritto che questo è il più terribile dei sonetti contro papa Gregorio XVI: qui egli è ritratto come il signore assoluto e padrone in totale arbitrio della vita, della morte, della sofferenza gratuita dei suoi sudditi (tortorelle) dello Stato pontificio, consegnati in pasto, ridenno, a “un brutto uscellaccio de rapina” (v. 6), che è simbolo dello stesso papato. Commentando questo testo, Gibellini scrive che Belli “riflette lucidamente sull’antropologia del Potere, concepito come Potentato di memoria scritturale, un’entità corrotta nell’essenza, una manifestazione organizzata del male, un arbitrio mostruoso nel suo sadismo, ma necessario. Ritroviamo gli archetipi del potere più sadico, ma inseriti nel contesto di gesti quotidiani che conferiscono alla descrizione un’impennata visionaria e demoniaca (…) Gibellini ha inserito il componimento nella prospettiva della tipica satira pluridirezionale belliana, che può indirizzarsi senza alcuna differenza contro i giacobini e contro i reazionari, contro le donne e contro gli uomini, contro i giovani e contro i vecchi. In questo caso è una satira verso l’alto, è una dissacrazione che colpisce lo stesso Vicario di Cristo, ritratto con segno grottesco degno di Goya o di Bacon mentre si abbandona a uno svago crudele e quasi surreale”.

Due giorni dopo, il 4 giugno, Belli scrive questo sonetto:

                                            Monziggnore, sò stato ferito

Da quattr’anni a sta parte e ppochi mesi

Si voi dite a sti santi imporporati:

Minentissimo mio, semo affamati”,

Pare, pe cristo, che l’avete offesi. 4

Io discorro accusì pperché l’ho intesi;

E sso anzi che loro e li prelati,

Quanno senteno guai, tutti arrabbiati

Dicheno: “Aringrazziate li Francesi”. 8

C’ha che ffà quela gente in sta faccenna?

Cosa c’entra la Francia in sto lavoro?

C’entra come li cavoli a marenna. 11

Li Francesi oramai passa vent’anni

Che sse ne stanno in pace a casa loro

Senza annasse a ppijà ttutti st’affanni. 14

Da quattro anni a questa parte e pochi mesi (dunque dall’elezione a papa di Gregorio XVI, che avvenne il 2 febbraio 1831) se voi dite a questi santi cardinali, “Eminentissimo mio, siamo affamati”, sembra, per Cristo, che li avete offesi. Io parlo così perché li ho sentiti, e quindi so che i cardinali e tutti i prelati, quando sentono guai, tutti arrabbiati dicono: ringraziate i francesi (che hanno occupato Roma dal 1809 al 1814). Ma che c’entra quella gente con questa faccenda della nostra fame? Cosa c’entra la Francia col guaio della nostra disperazione? C’entra “come i cavoli a merenda”. Sono passati ormai vent’anni che i francesi se ne stanno in pace a casa loro, senza che debbano venire a prendersi tutte queste preoccupazioni.

Per capire il titolo di questo sonetto bisogna leggere questa nota. “Fra gli altri sollazzi puerili usa in Roma il seguente. Un fanciullo si asside giudice. Un altro, curvato e colla faccia in grembo a lui, è percosso da qualcuno del resto della compagnia, che si tiene ivi presso schierata. Rizzatosi allora sulla persona, dice al giudice l’offeso: Monzignore so stato ferito. – Chi v’ha fferito? – La lancia – Annatela a ttrova in Francia – E ssi in Francia nun c’è? – Annatela a cerca indov’è – E ssi nun ce vò venì?- Pijatela pe un’orecchia e pportatela qui.- Con questo mandato va egli attorno fissando in volto tutti i suoi compagni, se mai vi apparisse alcun moto dal quale arguire la reità, mentre gli esplorati si agitano fra le più curiose smorfie del mondo per comporsi ad uno aspetto d’indifferenza. Finalmente ne sceglie uno, e lo conduce al giudice che gli dimanda: Chi è questo? Il querelante risponde: Come allesso; e il giudice, rivestito insieme della prerogativa di testimonio, riprende: Riportatelo via ché nun è esso, ovvero: Lassatelo qui ch’è esso, secondo ché il riclamo era bene o male applicato. Nel primo caso il povero deluso ritorna al suo posto in seno al giudice per subirvi nuove percosse: nel secondo vi subentra invece il reo convinto, e si ripetono in quella piccola società colpe, accuse e condanne.

Or noi, supposta una ingiuria, ed elevato il dialogo a più alta significazione, chiederemo al lettore, per moralità di questi versi, dove dovrebbe cercarsi l’orecchio da menare a penitenza, se cioè sul Montmartre o presso il Colle Vaticano”.

                                                                                      Gennaro Cucciniello