Il cardinale Richelieu. La carriera di una volpe.

Il cardinale Richelieu. La carriera di una volpe.

I primi passi falsi. Le alleanze, anche matrimoniali per raggiungere i suoi scopi. Poi il trionfo del cardinale che si fece re.

 

Questo è un articolo di Giuseppe Marcenaro, pubblicato nel “Venerdì” di “Repubblica” il 29 gennaio 2016, alle pp. 92-94. Sulla personalità politica di Richelieu voglio riportare un giudizio dello storico G. Spini: “Con il cardinale è tornato ad imperare lo Stato assoluto, accentratore, rinascimentale, cioè lo Stato che da tutti esige obbedienza illimitata e a tutti garantisce sicurezza materiale e pace interna, compresi gli ugonotti, rassicurati ormai dalle alleanze protestanti del loro re e resi inoffensivi dalla perdita delle “places de sureté”. Ciò ha voluto dire, naturalmente, la dura compressione del particolarismo feudale, delle autonomie locali e dei Parlamenti, l’imbavagliamento dei corpi municipali, la scomparsa degli Stati Generali. Lo Stato assoluto anzi ha perfezionato i propri organi di comando, irradiando la sua volontà dispotica fino alla periferia, mediante intendenti regi, inviati a vigilare l’amministrazione della giustizia e l’esazione dei tributi, e soprattutto a tenere d’occhio così i governatori feudali, come i nobili di toga, detentori di uffici. Ma è tornata anche la possibilità di lavorare in pace, di coltivare, di commerciare: è tornata la politica di Enrico IV d’incoraggiamento e controllo statale sull’industria, il commercio, la navigazione, le imprese coloniali (la Compagnia del Levante per il traffico nei paesi musulmani, la Compagnia della Nuova Francia per la colonizzazione del Canada, la Compagnia dell’Africa occidentale per la penetrazione nel Golfo di Guinea). (…) Ma chi paga le spese dell’enorme sforzo finanziario del Paese? Non certo quel cumulo gigantesco di ricchezze fondiarie, che sono i beni della nobiltà e del clero o le imprese protette dal favore regio. Basta pensare alla percentuale che questi redditi privilegiati rappresentano sul totale del reddito nazionale francese per capire la terrificante natura del peso imposto da Richelieu sulle spalle dei contadini dissanguati dalla “taille”, dei mercanti colpiti dalla “pancarte” (i manifesti pubblici di tassazione), dei consumatori più umili schiacciati dalle imposte indirette. La Francia è percorsa continuamente da agitazioni popolari”.

                                                                       Gennaro  Cucciniello

 

Nell’ottobre 1614, Maria de’ Medici, reggente del trono di Francia in nome del figlio –l’ancor piccolo re Luigi XIII-, convoca gli Stati generali. Dopo l’assassinio di Enrico IV c’è un Paese da riformare. Ma, com’è noto, le assemblee sono raramente riformatrici. Soprattutto quando devono riformare se medesime. Quell’avventizio parlamento diede prova della più assoluta incapacità. I seicento deputati si paralizzavano a vicenda, per i soliti intrighi del personale tornaconto. Tra loro vi è uno sconosciuto sacerdote di ventinove anni. Per quanto giovane, da otto anni è già vescovo di una delle più inzaccherate diocesi di Francia. E’ d’aspetto severo come si confà a un prelato. Si informa, guata, medita. Questo giovane, vescovo di Lucon, è Armand-Jean du Plessis de Richelieu. Fa di tutto per apparire modesto e disinteressato, in realtà arde dalla voglia di comandare. E proprio per l’emanata umiltà e la propensione all’accomodamento, dai marpioni degli Stati generali –che non hanno nessuna voglia di prostrarsi a Luigi XIII ragazzino- viene scelto per relazionare al re gli esiti dell’assemblea, scioltasi senza aver concluso nulla. Il vescovo di provincia lodò i deputati, lodò il re e soprattutto lodò la regina madre che, in quel momento, deteneva tutto il potere di Francia. Effondendo modestia e intelligenza, il vescovo si presenta con affettata soavità. Eppure nelle sue vene fermenta il sangue dei signorotti della provincia, attaccabrighe e intraprendenti. Anche violenti.

Destinato alla carriera militare, si era volto al mondo ecclesiastico dopo le rinuncia del fratello maggiore al vescovado di Lucon, delle cui prebende viveva la sua famiglia. Entrato nel collegio di Navarra, chierico e prete, a 22 anni è vescovo. Non ancora ordinato, presenta la tesi alla Sorbona, contrassegnata dal motto Quis erit similis mihi? Chi sarà simile a me? Una bella auto-considerazione. In privato, pur guardingo, non nasconde le sue vere intenzioni. “Ho il più brutto vescovado di Francia… In paese siamo tutti straccioni… Sono contrariato e bisogna porvi rimedio, con ogni mezzo”.

Sotto l’ala protettrice di Maria de’ Medici, a corte si trasforma in un autentico florentin. Con premeditate arti trasversali, possibilmente senza apparire in prima persona, la mano chirurgica, comincia a “rottamare” quanti potrebbero ostacolare la sua ascesa. Agisce con l’occulto consiglio di un eccezionale padre spirituale, père Joseph, il confessore di re e regine. Un frate che conosce tutti i segreti di Francia, a lui confidati col vincolo del segreto sacramentale. Richelieu riesce a entrare nelle grazie della favorita della regina madre, la fiorentina Leonora Galigai che, per inaudita fortuna, è più influente della stessa sovrana. Occorre tuttavia piacere anche al marito della Galigai, il nobile toscano Concino Concini che, arrivato a Parigi, con un’arte adulatoria senza eguali, aveva ottenuto dalla sua conterranea Maria de’ Medici le cariche di maitre d’hotel et premier écuyer. Diventa Pari di Francia. Ha una fortissima ascendenza sulla regina. Richelieu ha bisogno di un partito che lo sostenga. Non può fare tutto da solo. Per quanto prudente si accasa al partito di Concini, che sta cercando un uomo da opporre agli ultimi ministri di Enrico IV, quei detestati barbons.

Il 25 novembre 1616 Richelieu è nominato Segretario di Stato. In quei giorni scrive che la sua disponibile remissività comincia a raddrizzarsi. Falsa partenza. Concini viene assassinato a pistolettate nel cortile del Louvre da anonimi sicari, Leonora arsa come strega, Maria de’ Medici cade in disgrazia. Richelieu riceve l’ordine di andarsene. Si inchina. Come uno di quegli accorti marinai che sanno evitare gli scogli con un energico colpo di timone, il vescovo sa giocare d’astuzia con i marosi. Silente, indirizza il vento. Accortamente, come una faina, fa sposare una propria nipote con il nipote di Charles d’Albert de Luynes, il favorito del re, il quale, insufflato proprio da Luynes sollecita papa Paolo V affinché imponga la berretta rossa al vescovo de Richelieu. E’ la virata di riavvicinamento alla corona corroborata da una botta di fortuna. Muore Luynes, il vero ostacolo al rampantismo di Richelieu che, mentre lo indica, intende dire dal re: “Ecco un uomo che vorrei molto fosse nel mio Consiglio, ma non mi so decidere”. Richelieu ispirava a Luigi una strana ammirazione: paura e rancore coniugate a una stima per l’intelligenza dell’uomo.

La porta reale si aprì. Il cardinale la varcò in abito frusciante di seta moirée poncò. Il giovane Luigi, il figlio di Enrico IV, deplorava che la politica del padre fosse stata abbandonata e sapeva benissimo di non essere all’altezza di fronteggiare i problemi: grane con le comunità protestanti che trescando con l’Olanda e l’Inghilterra agitavano il mezzogiorno di Francia; l’esercito organizzato da Enrico IV sciolto; le alleanze contratte con i principi tedeschi e italiani contro la Casa d’Austria estinte. Luigi XIII doveva affidarsi a un restauratore. Impossibile sapere cosa l’inesperto re e il cardinale si dicessero in quel fondamentale colloquio, avvenuto nel 1624. Cosa Richelieu suggerisse.

Il senso dell’incontro può essere virtualmente ricostruito da alcune lettere del cardinale e soprattutto nel suo “Testamento politico” pubblicato nel 1688, postumo come molti scritti di Richelieu, e riproposto adesso dall’editore Aragno (a cura di Alessandro Pozzi, pp. 378, € 22). Il “Testamento” più che un testo a futura memoria è un vero e proprio progetto politico: la Francia, estesa fin alle sue frontiere naturali, doveva diventare la prima potenza della Cristianità e la bandiera del re sventolare su tutti i continenti; la marcia della Francia era subordinata alla sua unità: unità di voleri, di cuori, di cervelli, di spiriti, di forze, di coscienze; unità materiale, unità morale sotto un’accettabile disciplina, al caso sotto una disciplina imposta alle minoranze faziose.

Si può immaginare l’imbelle Luigi XIII di fronte a queste prodigiose prospettive. Il sovrano è tutto un fremito d’orgoglio. Come realizzare il rigoroso progetto di Richelieu? Occorre denaro. Il Soprintendente alle Finanze dichiara di essere completamente a secco. Si era consentito ai grandi commis di vuotare le casse dello Stato. La confusione e le individuali richieste delle corporazioni avevano paralizzato materialmente e moralmente lo Stato, in preda a complotti, intrighi, fazioni. I colpevoli di fomentare torbidi, protetti dalle connivenze, furono costretti ad andarsene. Lasciando ogni carica da loro ricoperta.

Appoggiato dal re, Richelieu –dal 1626 al 1642 primo ministro- attuò il programma. Tuitti erano contro di lui, tutti contro Richelieu. Facendolo immaginare in atto di tessere trame, ordire intrighi, a fini personali. Venne trasfigurato in uno dei cattivi della storia. Nell’immaginario collettivo divenne l’emblema della perfidia, come è raccontato nei “Tre moschettieri”, bestseller d’antan di Alexandre Dumas, recensito da Flaubert: “… chiuso il libro, e tutto essendo passato come acqua chiara si ritorna ai propri affari”.

In effetti Richelieu era un uomo dalla sontuosa considerazione di sé. Sul letto di morte disse: “Non avrete pensato che fossi immortale?”. Quando se ne andò, mezza Europa si mise in festa. Soltanto dopo anni la Francia ne comprese la grandezza.

Giuseppe Marcenaro