Carlo Porta, il poeta italianissimo in dialetto

Carlo Porta, il poeta italianissimo in dialetto.

 

“La Lettura”, supplemento culturale del Corriere della Sera del 3 gennaio 2021, alle pp. 16-17, ospita questa analisi di Paolo Di Stefano che, citando gli studi di Isella e di Contini, avvicina Porta, con Giuseppe Gioacchino Belli, a Leopardi e a Manzoni.

                                                        Gennaro Cucciniello

 

Parlare di Carlo Porta significa convocare una giostra di nomi e figure eccelse: da Dante Isella a Gianfranco Contini, da Raffaele Mattioli a Giovanni Raboni. A Isella dobbiamo la fondamentale edizione critica delle poesie, uscita nel 1955-56 in una collana di classici curata da Contini per la Nuova Italia, e una serie di studi cinquantennali, che contribuiscono a emancipare il Porta dalla schiera dei minori entro cui era rimasto relegato dopo la morte, avvenuta due secoli fa, il 5 gennaio 1821, per una dolorosa febbre gastrica, prodotta dall’umore gottoso. Sarebbe stato il suo grande amico (ed editore) Tommaso Grossi a pronunciare l’elogio funebre e dopo qualche giorno Manzoni avrebbe comunicato la dipartita al sodale parigino Claude Fauriel rimpiangendo quel “talento ammirevole che si perfezionava giorno dopo giorno”. Quanto agli studi, lo stesso Isella riconobbe ad Attilio Momigliano il merito di avere promosso, già nel 1909, una prima esatta e motivata valutazione della grandezza del poeta. Senza dimenticare che il dialettologo ticinese Carlo Salvioni aveva già tentato una sistemazione filologica sulle carte autografe.

Le carte autografe attestano il lavoro del geniale artigiano del verso, che agiva per piccoli spostamenti e per progressive sostituzioni e ripensamenti. E proprio l’analisi al rallentatore delle varianti e la ricostruzione dei testi primitivi, manomessi dagli scrupoli moralistici dei curatori postumi, mostrano come il dialetto per Porta non fosse affatto sinonimo di ingenuità istintiva o di libertà naif, ma strumento già collaudato per diversi secoli da una tradizione colta, che affianca quella popolaresca senza intenti necessariamente grotteschi o deformanti. I precedenti più prossimi a Porta, si sa, sono il teatro di Carlo Maria Maggi in pieno Seicento e i due poeti Carlo Antonio Tanzi e Domenico Balestrieri, non ignorando che Parini nel 1760 ingaggiò una famosa polemica in difesa del dialetto anche in chiave illuministica di rinnovamento morale.

Tutto ciò l’abbiamo saputo grazie agli scavi di Isella, che dal Quattrocento approdano a Dossi, a Gadda e a Delio Tessa, il quale con il romano Belli sarebbe stato l’erede massimo di Porta. Sempre grazie a Isella sappiamo che il verso di Porta guarda anche alla tradizione metrica illustre di Dante e di Ariosto e che in realtà quella satira dialettale, le cui sferzate secondo Carlo Cattaneo avrebbero ancora fatto bene ai milanesi del suo tempo (figurarsi a quelli di oggi), si avvaleva di livelli molteplici: con giochi di miscela tra francese, latino liturgico, un po’ di tedesco, un po’ di veneto, il parlar finito delle marchese. Isella è anche l’editore dell’epistolario portiano, testimonianza di una stagione culturale in cui la Lombardia era importante crocevia europeo (“Le lettere di Carlo Porta e degli amici della Cameretta” escono nel 1967 presso la Ricciardi del banchiere illuminato Raffaele Mattioli, che nel 1958 aveva già ospitato l’edizione commentata delle Poesie).

Una società in evoluzione. Se con Parini e Manzoni (suo amico) l’autore della “Ninetta del Verzee” condivideva le tensioni etiche, quelle preoccupazioni civili provenivano da esperienze biografiche diverse, e si vede. A differenza degli altri due, Porta appartiene a una famiglia borghese (molto pia nel ramo materno), figlio di Giuseppe, funzionario dell’amministrazione dello Stato. Rimasto orfano di madre, Carlo va a studiare nel collegio gesuitico di Santa Maria degli Angeli a Monza, dove si laurea in umanità e retorica nel 1792; lasciato il Seminario di Milano e il corso superiore di filosofia per volontà paterna, si avvia verso la carriera impiegatizia, prima che l’arrivo dei francesi faccia precipitare le sorti della famiglia. I rovesci e i ribaltoni dell’epoca sono tutti riflessi dentro la poesia di Porta, che racconta via via con toni di satira, di dolore, di rabbia, di scandalo, di indignazione, di pietà, ma sempre con partecipazione, la Milano tra Napoleone e la Restaurazione, tra Ancien Régime e moti rivoluzionari, pagando anche personalmente le conseguenze della denuncia e dell’irruenza. Manzoni lo ammirava anche per questo, e come segnalava Momigliano “facilmente chi ammira imita”, perciò non stupisce che nei “Promessi sposi” si trovino echi di Porta: sicché come don Abbondio anche Giovannin Bongee (protagonista delle “Desgrazzi”, la raccolta del 1812 che, dopo le prove giovanili, ne segna il successo), il tipico popolano milanese, è un uomo tranquillo e indifeso che si muove in un mondo di prepotenti e di furbi. Ci si stupisce invece ritrovando niente meno che in Lucia tratti dell Tetton, la giovane prosperosa e sfacciata di cui è innamorato perso il musicista sciancato Marchionn (di gamb avert). Spingendosi oltre, si scoprirà che Manzoni attinge al linguaggio polifonico e antiletterario orecchiato da Porta nella folla dei mercati e dei vicoli, tra “i serv e i recatton”, le sguattere, le lavandaie, le puttane, i rigattieri, le guardie, i fattorini, gli ambulanti.

A proposito di questa fauna vociante di poveracci, disgraziati, perdenti, fragili capitati in un mondo feroce, interviene la lettura di Raboni, che qualche anno fa ha ispirato la sorprendente traduzione portiana di Patrizia Valduga. Sorprendente perché è la sola che non accetta di farsi semplice versione di servizio, ma sfida il ritmo di Porta senza tradirne la naturalezza narrativa. Raboni, si diceva. E’ lui che sposta decisamente lo sguardo verso la narrazione, scrivendo che Porta e Belli non sono stati soltanto i maggiori poeti dell’Ottocento italiano (più grandi di Leopardi (?) e Manzoni), ma “sono stati anche –all’insaputa dei loro contemporanei e, forse, di loro stessi- i nostri Gogol’, i nostri Dickens, i nostri Balzac”. Un’illuminazione.

Era il 1999 e il lungo pregiudizio antidialettale era venuto meno da tempo. Ma bisogna pur dire, a onor del vero, che se dalla critica il poeta milanese fu in parte sacrificato o per lo meno frainteso, non era mai stato emarginato dalla considerazione pubblica: anzi fu oggetto di un fervoroso e immediato culto popolare. Tant’è che già a metà Ottocento, un filosofo e politico europeo come Giuseppe Ferrari testimoniava: “Immensi furono i successi del Porta; le sue poesie sono ancora lette in tutta l’Alta Italia; sannosi a memoria, e nondimeno si rileggono ancora”. E sfogliando il “Corriere” tra fine XIX e XX secolo, non passa settimana senza trovare una notizia sull’”Omero delle Odissee di Giovanni Bongèe e del Marchionn”. Il 17 aprile 1890, sotto la testatina di terza pagina intitolata “Corriere Milanese”, viene dato annuncio, pur colle debite riserve, del ritrovamento, in una cassa affatto intatta, delle ossa dell’illustre concittadino, compiuto dopo lunghe indagini nel Cimitero di San Gregorio: “Scoperchiata con tutti i maggiori riguardi possibili, si è verificato contenere essa le spoglie mortali del satirico poeta milanese”. Il proposito era quello di affiancare la sua cassetta a quella del Monti, anch’essa appena reperita, per trasferirle insieme nel Famedio. In realtà, un paio di giorni dopo, arrivò la smentita: lo scheletro presunto di Porta era uno scheletro femminile, e le presunte falangi di Monti non erano del Monti.

Ma gli omaggi per fortuna non si limitano agli amabili resti. E’ il 19 luglio 1906 quando, sempre dal “Corriere Milanese”, si viene a sapere dell’ammirazione così viva che del gran meneghino aveva manifestato niente meno che Giosuè Carducci, con un’intuizione circostanziata che si direbbe pre-iselliana: “Al Carducci il Porta parve un degno compagno di Giuseppe Parini in quella preparazione dello spirito italico, che si effettuò tra due dominazioni: quella francese in nome della libertà: quella austriaca in nome di un governo assoluto. Chi non scrisse che in milanese, fu infatti un grande maestro di italianità”. E si aggiunse acutamente che sarebbe assai arduo comprendere Parini senza la poesia civile e realistica di Porta. In chiusura del pezzo viene promosso un appello del senatore Giovan Battista De Cristoforis per l’erezione di un nuovo monumento da collocarsi nella piazza del Verziere (quello ai Giardini Pubblici essendo abbandonato). E nell’occasione il poeta milanese Gaetano Crespi reclama l’istituzione di un Museo Porta, con autografi, ritratti e cimeli: progetto che verrà a compimento nel 1909. Dulcis in fundo, il 27 aprile 1908, il “Corriere Milanese” dà conto di un’affollata conferenza del senatore Francesco D’Ovidio, autorevole filologo della Normale di Pisa, in cui Porta viene collocato, nel gusto dei milanesi, tra “I promessi sposi” e il panettone.

 

                                                        Paolo Di Stefano