Repubblica Napoletana. 30 giugno-11 luglio 1799. Un giudizio storico sul clero meridionale. Cannibalismo per le strade di Napoli. Comincia l’interminabile elenco delle esecuzioni.

Cronologia della repubblica giacobina napoletana. 29° puntata. 30 giugno–11 luglio 1799. Un giudizio storico sull’atteggiamento del clero meridionale. Cannibalismo per le strade di Napoli. I presupposti della politica di Nelson. Comincia l’interminabile elenco delle esecuzioni. Resa di Castel Sant’Elmo grazie al tradimento del colonnello francese Méjan.

 

Comincio a scrivere, in molte puntate, una cronologia dettagliata degli avvenimenti che –giorno dopo giorno- caratterizzarono l’esperienza della Repubblica giacobina napoletana e meridionale del 1799. Ai fatti intreccerò le opinioni e i commenti dei cronisti di quei giorni e degli storici otto-novecenteschi per far convivere la cronaca in presa diretta con uno sguardo panoramico in posizione arretrata: costruendo così una struttura alla quale appendere una serie immensa di fatti, delitti, eroismi, pensieri, avventure, sacrifici, ideali.

Voglio rivivere io e far rivivere ai lettori –nei limiti del possibile- le esaltazioni e le sofferenze di quelle giornate, gli entusiasmi e i fanatismi, le contraddizioni e le illuminazioni, così che risulti più chiaro, o meno oscuro, l’avvilupparsi contrastato degli episodi. “La storia è il corpo” –ha scritto Alexander Ross- “ma la cronologia è l’anima della scienza storica”, anche se (aggiungo io) la linea del tempo non spiega il Tempo, ma questo lo sappiamo da sempre senza riuscire bene a spiegarlo. Bisogna sempre tenere a mente un pensiero di George Santillana: “Quelli che non hanno familiarità con la storia sono condannati a ripeterla senza nessun senso di ironica futilità. Ci sediamo a guardare, e la storia si ripete. Non abbiamo imparato niente? No, non abbiamo imparato niente”.

Tanti anni fa, ero studente di liceo, lessi per la prima volta le cronache di quella rivoluzione. Mi colpirono, in modo vivissimo, il martirologio finale, l’eroismo civile dei patrioti impiccati e decapitati, i tanti morti ammazzati negli scontri, la furia selvaggia della plebe, la ferocia vile della monarchia borbonica. Fui indotto a riflettere sulla separazione drammatica che i tragici fatti di quei mesi avevano prodotto, nel Sud dell’Italia, tra il ceto colto e illuminato e la grande massa della popolazione, un dato che era già stato anticipato –sia pure in misura minore- nella guerra antifeudale del 1647-’48.

“Alla fine del Settecento la situazione nelle regioni meridionali italiane si presentava in modo gravemente sbilanciato: da un lato la popolazione era aumentata, la produzione pure, il prezzo dei cereali ed altre derrate era salito moltissimo, il commercio si era intensificato, le terre comunali erano state divise, le proprietà nobiliari e borghesi si erano moltiplicate; dall’altro il lavoro scarseggiava ed erano cresciuti i disoccupati, i salari erano rimasti quelli di mezzo secolo prima, la piccola proprietà contadina era in crisi, dilagavano pauperismo e brigantaggio, c’era una fuga costante dai villaggi rurali verso le città. Non si erano sviluppati nuovi moderni rapporti di lavoro nelle campagne, non si erano visti massicci investimenti di capitali, sviluppo di manifatture, una riorganizzazione finanziaria e creditizia. Le continue usurpazioni a danno delle proprietà comunali prima, la quotizzazione dei demani poi a vantaggio dei proprietari borghesi avevano accelerato un generale processo di proletarizzazione contadina e diminuito le già scarse possibilità di sopravvivenza delle grandi masse popolari. A ciò si aggiungeva che l’attacco ai beni ecclesiastici e la soppressione di parecchi conventi avevano peggiorato la situazione dei contadini inaridendo l’unica possibilità per essi di avere piccoli prestiti ad un tasso modico di interesse ed esponendoli al ricatto delle speculazioni usuraie dei mercanti (la Chiesa, infatti, esercitava da sempre un prestito di denaro ai piccoli coltivatori, allevatori ed artigiani ad un basso saggio di profitto per venire incontro alle loro esigenze immediate). Le poche e contrastate riforme che s’erano fatte avevano colpito, in ultima analisi, le forze socialmente più deboli (i contadini) o politicamente più scoperte (il clero), aumentando anzi il potere dei gruppi più potenti: da ciò uno squilibrio sociale, una tensione e un’inquietudine popolari crescenti”. (Questo avevo scritto in un mio libro nel 1975, Cucciniello, p. 9). Questa mia analisi era stata confermata, qualche anno dopo, dal giudizio di G. Galasso: “Complessa, pluridimensionale e contraddittoria era l’articolazione nazionale del popolo meridionale, con la difficoltà obiettiva di stringere in un unico nesso le molte e discordi fila di una storia singolare. Diversi i gradi di differenziazione e di mobilità sociale, diversi la natura e il ritmo di sviluppo delle attività economiche, diversi il folklore e gli usi e i costumi, forti i caratteri di disgregazione sociale e di debolezza dello spirito pubblico”.  In un contesto di questo genere si collocano i fatti di cui qui si narra. Senza sottovalutare un dato: l’illuminismo armato di Bonaparte frantumerà anche nel Sud Italia le illusioni delle élites liberali e patriottiche.

Certo, c’è un rischio in questo lavoro ed è quello che si arranchi dietro agli avvenimenti alla ricerca di una contemporaneità coi fatti che giorno dietro giorno vediamo svolgersi sotto gli occhi, fatti dei quali afferriamo solo il senso ristretto e localistico, sfuggendoci la dimensione universale di cose che in quegli anni stavano trasformando l’Europa. Già Huizinga nel 1919, in “L’autunno del Medioevo”, sosteneva che i passaggi storici erano un lento declinare della vecchia epoca unita all’incubazione di una nuova età: e proprio il nostro 1799, paradigmaticamente, è un intrecciarsi terribile di perduranze –anche superstiziose- e di utopie innovative.  Si può anche restare affascinati dal gioco dei “si dice”: un gioco vario, imprevedibile, che riesce quasi a darci il respiro intimo del tempo, la voce pubblica nel suo dinamico e contrastato formarsi. I “si dice” riflettono il tessuto mutante delle opinioni e permettono quasi di vedere l’avvenimento prima ancora che sia accaduto, nei mutamenti anche psicologici che lo preparano e lo determinano. Si sa, una cronaca puntigliosa, infinita può essere insensata e inutile. Se essa è legata, invece, ad una storiografia che è ricerca mirata, orientata da problemi e da valori, interpretazione documentata, può favorire l’abitudine al giudizio informato, il possesso di un metodo, la conoscenza strutturata di nozioni, il confronto con una varietà di analisi, distinte con chiarezza nelle loro premesse e nelle loro conseguenze.

Non scrivo di più. Ho usato un metodo di ricerca attento alla decodifica delle informazioni e alla validazione delle fonti. Lascio ai lettori l’interpretazione dei dati e le conclusioni che vorranno trarne.

                                                                       Gennaro Cucciniello

 

 

30 Giugno. Domenica. Napoli. “Finalmente in questo giorno arrivarono da Palermo le risposte delle LL. MM. con gli ordini del sovrano. Circa il contenuto di dette risposte e del tenore degli ordini sovrani abbiamo notizie preziose nel dispaccio dell’Hamilton del 14 luglio, con cui egli fa un breve resoconto riassuntivo degli avvenimenti al nipote Grenville. “Alle LL. MM. (informa l’Hamilton) avevamo esattamente rappresentato la situazione di Napoli, impedendo nello stesso tempo a Sua Eminenza di commettere qualche danno esiziale…”. Ciò spiega il contegno del Nelson verso il Ruffo nei primi giorni dopo il suo arrivo a Napoli. Lo stesso Hamilton, nel medesimo dispaccio al nipote, aggiunge: “Al ritorno della nave, che aveva portato a Palermo le nostre lettere, lord Nelson ne ricevette una dal Re, che lo ringraziava di avergli salvato l’onore e gli dava pieni poteri di nominare un nuovo governo ed anche di arrestare il Cardinale, se credesse necessario di giungere a questo punto”. Che questa lettera del Re non sia stata scritta prima del 27 si rileva da una lettera, datata 1° agosto dell’Acton al Nelson, nella quale è detto: “Le osservazioni di V. S. (Nelson) e di Sir W. Hamilton sui fatti accertati al vostro arrivo a Napoli destarono i sospetti di S. Maestà”; ossia il Re, prima di ricevere la relazione del Nelson fattagli nel pomeriggio del 24, non aveva sospetti contro il Ruffo, e non poteva quindi disporre contro di lui. Conseguentemente e certamente: non prima del pomeriggio del 24 poté essere scritta la relazione di Nelson; non prima del 27 essa giunse a Palermo; non prima dello stesso giorno 27 rispose il Re; non prima del 30 giunse a Napoli la risposta. Quindi soltanto il 30 giugno Nelson venne in possesso di pieni poteri legali e conseguentemente prima di quel giorno fu arbitraria ogni sua azione in contrasto con quella del Ruffo, la cui autorità di Vicario Generale era assoluta. Concludendo, è fuori di dubbio che Nelson non solo violò la capitolazione, ma anche usò l’inganno per eludere l’opposizione di Ruffo, perché, come giustamente poco dopo osservò il Paribelli, “il trattato doveva essere osservato perché i patrioti avevano già messo in esecuzione la parte che recava loro danno” (Serrao, pp. 253-4).

Un riassunto mirabile di quei giorni. Quando, visto il mare biancheggiar di vele, fu creduto l’arrivo della flotta gallo-ispana; e perciò tra i repubblicani imbarcati scoppiò cordoglio comune e rimproveri vicendevoli; andò più alto la fama di Manthoné, il quale aveva sempre biasimato la resa de’ castelli, e chiamato viltà in qualunque infima sorte darsi chiavo al nemico, quasi mancasse la libertà del morire. Ma erano quelle navi dell’armata di Nelson, che arrivò al golfo prima che il sole tramontasse. Nella notte levatosi favorevole vento a navigare per Francia, i preparati legni non salparono, ed al vegnente giorno, mutando luogo nel porto, andarono sotto al cannone del castel dell’Uovo, tolti i timoni e le vele, gettate le ancore, messe le guardie, trasformate le navi a prigioni. Di che gli imbarcati, meravigliando e temendo, chieste spiegazioni all’ammiraglio Nelson, il vincitore di Aboukir non vergognò cassare le capitolazioni, pubblicando editto del re Ferdinando che dichiarava: i re non patteggiare coi sudditi; essere abusivi e nulli gli atti del suo vicario; voler egli esercitare la piena regia autorità sopra i ribelli. E dopo quel bando, andarono alle navi commissari regi per trarne i designati (ottantaquattro), che, incatenati a coppie, e a giorno pieno, per le vie popolose della città, furono menati, con spettacolo misero e scandaloso, alle prigioni di quei medesimi castelli che essi poco innanzi, ora gli Inglesi, guernivano. Altri degli imbarcati, non eccitando, per la oscurità dei nomi e dei fatti, la vendetta di quei superbi, o bastando a vendetta l’esilio, andarono su le navi medesime a Marsiglia. Il conte di Ruvo, cedute le fortezze di Pescara e Civitella, e venuto con altri parecchi del presidio ad imbarcarsi, com’era statuito nei patti della resa, furono menati spietatamente nelle carceri. Alle quali prove di crudeltà e d’ingiustizia, i Borboniani, i lazzari, le torme della Santa Fede, già impazienti e sdegnosi dei trattati e degli editti di pace del cardinale, ora, scatenati, tornarono alle mal sospese ferità; ed il Ruffo, timoroso di quei tristi e della collera del re, taceva o secondava”  (Colletta, pp. 363-4).

“La rivoluzione del 1799 ebbe un’importanza grandissima: non tanto per i provvedimenti eversivi del governo repubblicano, maturati tardi e rimasti inefficaci, quanto per lo sconvolgimento che provocarono nel paese la propaganda rivoluzionaria, la lotta delle fazioni, il mutamento del regime, la conquista e la riconquista, l’azione delle masse sanfediste. Il 1799 fu la prima grande esperienza politica della borghesia meridionale, non solo degli intellettuali giacobini, ma anche dei galantuomini, dei proprietari delle province che furono trascinati, sia pur malvolentieri, dalla drammaticità della lotta a prendere posizione, a uscire dall’indifferenza e dall’inerzia politica nella quale erano venuti creando la loro fortuna economica. Militassero essi nelle file borboniche o avessero aderito alla repubblica giacobina, variamente coinvolti negli avvenimenti che sconvolsero profondamente l’assetto del regno, i galantuomini non potevano non prendere coscienza del pericolo che rappresentavano per le loro conquiste più o meno recenti l’insurrezione delle masse contadine e l’incerta, se non ambigua, azione del governo restaurato” (Villani, pp. 199-200).

1 luglio. Lunedì. Un giudizio interessante sull’atteggiamento del clero. Cosa pensava l’opinione silenziosa e poco apparente sulla condotta del clero a quell’epoca? Essa aveva veduto con ribrezzo e come uno scandalo ecclesiastici anche di avanzata età che godevano di una certa riputazione, rinnegare in un certo modo i principi che insegnavano, e disertare l’altare con disprezzo per l’opinione pubblica e poco rispetto per la loro personale dignità, ciò che faceva, e con ragione, giudicare con severità la loro condotta. Erano con più indulgenza considerati quei che si armavano per difendere le loro dottrine e le comuni credenze del paese, e difendevano anche il suolo contro la straniera invasione. Ma, quando questi furono vittoriosi, quando furono visti da vicino, quando non ebbero la forza di moderare la crude e sovente atroce condotta di quelle masse che essi avevano eccitate, quando spesso le aizzavano ad essere crudeli; e rivestiti anch’essi di segni, di militar divisa, avevano perduto ogni esterna fisionomia di uomini al tempio dedicati; e, finita la circostanza per la quale poteva scusarsi la loro momentanea trasformazione, si vide che, invece di rientrare nel santuario, volevano prolungare una situazione poco conforme ai doveri del loro stato, denunziare, assediare i ministeri per ottenere ricompense superiori ai loro servizi, e che toglievano a questo il carattere d’un impulso della coscienza, furono severamente riprovati. Ed i loro costumi ruvidi e non puri, e la loro negletta educazione, tutto contribuiva a renderli un oggetto di ripulsione e non di simpatia: e le pene che soffrivano gli altri con dignità, la rassegnazione e la pietà mostrata dai più negli ultimi loro momenti, ispirò della simpatia; la loro educazione, le loro opere, i loro costumi regolari in molti, e severi in alcuni, ch’erano più giansenisti che filosofi, li fece considerare come uomini allucinati, le cui intenzioni non erano prave, che onoravano il paese come cultori delle lettere e delle scienze, e che avevano espiato amaramente i loro torti. Bisogna aggiungere che furono inviluppati nella persecuzione non solo quei che si erano dichiarati per le nuove forme, ma anche quei pastori che avevano concepita la loro missione come di pace, tendendo a far rassegnare i vinti e raddolcire i vincitori e non mischiare le questioni politiche colle religiose; tanto che il culto pubblico era stato rispettato dai Francesi, ed avevano anche i loro capi fatto degli atti, con assistere alle sacre funzioni, benché in Francia a quell’epoca il culto pubblico fosse stato abolito. Questi prelati ebbero pene più miti certo, ma pene. E il venerabile cardinale Zurlo, arcivescovo di Napoli, ne fu l’esempio più segnalato, e morì lontano dalla sua diocesi. Pio VII, che disapprovò apertamente i vescovi prestatisi a dissacrare un loro collega, che subì con forme ignominiose la pena capitale, ricevé severamente il nuovo arcivescovo di Napoli, che morì al suo ritorno quasi di dolore” (Blanch, pp. 39-40).

2 Luglio, martedì. Napoli. “I popolani se non ammazzano subito i patriotti li portano direttamente a bordo dei vascelli Inglesi, non più al ponte, perché si lagnano della clemenza di Ruffo e forse lo imputano pure. Ecco dunque la città in preda di nuovo ad una tanto più tremenda anarchia, quanto è militare (…) Quello che ancora mi rincresce, è il vedere che mentre tutte le forze nemiche sono ristrette nel solo forte di S. Elmo e suo circondario, non si fa dai comandanti delle truppe Regie uno sforzo per superarlo e rendere la tranquillità all’afflitta capitale che son 21 giorni è in mezzo al furore d’una guerra civile” (De Nicola, p. 276).

Palermo. La regina scrive all’amica Emma Hamilton. Compiacimento per le prime esecuzioni: “Ho ricevuto, mia cara Milady, con infinita riconoscenza vostre care e cortesi lettere tre di sabato ed una del giorno prima con la nota dei giacobini arrestati, che sono una porzione dei più scellerati che noi abbiamo avuti; ho veduto pure la triste e meritata fine del disgraziato e forsennato Caracciolo” (Serrao, p. 263).

3 Luglio, mercoledì. Napoli. Cannibalismo per le strade della città. “I tradimenti scoverti ieri hanno eccitato nuovamente il furore del popolo, son ricominciati gli arresti e i saccheggi. E’ degno di esser notato che fu veduta ieri una cosa orrorosa a dirsi, ma che fa conoscere che cosa sia l’uomo. Essendosi brugiati i corpi di due Giacobini, il popolo furioso e sdegnato, ne staccava i pezzi di carne abbrustolita e li mangiava, offrendoseli l’un l’altro fino i ragazzi. Eccoci in mezzo ad una città di cannibali antropofagi che mangiano i loro nemici” (De Nicola, 277). “Le Truppe a Massa unita col Popolo principiarono a tumultuare su supposto che alcuni ufficiali, per sacrificarli, dentro gli cartucci vi mettevano carbone polverizzato invece di polvere, e nocelle invece di palle. Furono perciò presi per questo supposto tre ufficiali fedeli, furono strascinati, ed uno di essi fu squartato verso l’ultimo di Toledo, a mano sinistra, prima di giungere alla Chiesa di S. Ferdinando, e mezzo fu bruciato, e l’altro restante mezzo abbrustolito fu portato vendibile per le piazze di Napoli, ridotto a pezzetti, a chi se ne comprava un poco, e se lo mangiavano. Le sue parti pudenti attaccate ad una lunga mazza erano portate in trionfo per Napoli. Cosa da non credersi, ma vera però, e veduta da me stesso. Non erano rare queste scene di orrore e raccapriccio” (Marinelli, pp. 8-9).

Palermo. Il re si imbarca alla volta di Napoli.

4 Luglio. Giovedì. Palermo. “La regina Carolina scrive a Vienna: “Il cardinale ha segnato per debolezza un’indegna capitolazione coi ribelli, ma il Nelson ha tutto negato”. No, più che debolezza quella del Ruffo era saggia prudenza, data la situazione; né la capitolazione era indegna perché, se rispettata, sarebbe stata il mezzo migliore e forse unico, perché l’aristocrazia della nascita e dell’ingegno ritornasse alla monarchia; la quale invece, pur di dare sfogo alle sue vendette, preferì rimanere lazzaresca” (Serrao, p. 263).

5 Luglio. Venerdì. Un giudizio sull’intervento inglese. “Col ritorno di Ferdinando IV, gli inglesi assunsero una posizione di primo piano nella vicenda napoletana ed ebbero in Nelson, a differenza di Championnet, un fedele esecutore di ordini. A questo proposito è necessario ridimensionare la ricostruzione quasi esclusivamente romanzesca dell’ingerenza nella politica inglese della bellissima Emma Liona, moglie dell’ambasciatore Hamilton ed amante di Nelson. La Francia aveva rappresentato per l’Inghilterra, da secoli, la potenza rivale per eccellenza, così come il Mediterraneo rappresentava una zona che, dopo la pace con gli Stati Uniti del 1783, era necessario riconquistare e tenere perché in Gran Bretagna si era convinti che il padrone del Mediterraneo fosse anche il padrone del mondo. Da queste due considerazioni muove la politica inglese verso la Rivoluzione, politica che trova il consenso dell’opinione britannica estranea e contraria ai principi rivoluzionari. Su questi presupposti si fondava la politica di Nelson nel Napoletano, tendente da un lato a distruggere un focolaio rivoluzionario in Italia e dall’altro a dividere italiani e francesi mostrando nel momento tragico dell’armistizio di porli su due piani diversi: ciò appunto al fine di mantenere le importanti basi del Mediterraneo e nello stesso tempo di porre la forte flotta napoletana in stato di subordinazione ed in condizioni sempre più precarie dal punto di vista dell’efficienza. E’ alla luce di queste osservazioni che va giudicata l’azione di Nelson e, soprattutto, la sua lotta contro il Ruffo. Questi infatti aveva per scopo di ricostruire uno Stato napoletano autonomo e indipendente, anche con l’aiuto dei giacobini, mentre Nelson voleva tutt’altro e non vi è dubbio che l’ottenne, anche se la diffidenza verso l’Inghilterra divenne da allora uno degli aspetti salienti della politica borbonica prima e dopo la Restaurazione” (Battaglini, p. 28).

6 Luglio. Sabato. Napoli. Comincia l’interminabile elenco delle esecuzioni. “Quest’oggi si è afforcata una persona a Porta Capuana reo di aver vilipeso la bandiera Regia, essendo uno dei più decisi ribelli; si tratta di Domenico Perla, palermitano. Lunedì, sento che vi sia altra più numerosa giustizia. E’ tale l’avversione del popolo con simil gente, che non voleva manco si fossero chieste le elemosine solite per le messe che si fanno dire agli afforcati. Veramente ne ha ragione perché avevano questi tali giurata la distruzione di tutti coloro che non erano, come essi si dicevano, patriotti” (De Nicola, p. 284).

7 Luglio. Domenica. Napoli. Paura e rabbia per le bombe da Castel Sant’Elmo. “Si è fatto per tutta la giornata un fuoco vivissimo contro S. Elmo, e secondo le notizie sarà più tremendo domani, perché fra due o tre giorni deve essere preso. Si sente che sia tutto fracassato ed aperto pure in un lato, smontate le sue batterie, ed in uno stato di non poter più resistere. Chiese ieri e questa mattina di capitolare, ma gli è stato negato, dicendosi dal generale Inglese che non era più tempo, e che si rendesse tutta la guarnigione prigioniera di guerra, o tutta sarebbe passata a fil di spada. Chiesero un’ora di tempo per seppellire i cadaveri ed anco gli fu negato. Chiesero di uscirsene colle sole mucciglie, né tampoco gli fu permesso, essendo gli Inglesi determinati a superarli dopo aver vinto l’ostinata difesa di otto giorni. La città però ha continuato a sentirne danno, molte bombe son cadute in mezzo alla medesima e cinque persone nella Piazza del Pennino son rimaste morte con un colpo di cannone. Quest’oggi si son veduti trasportare tre cannoni del massimo calibro, trasportati ciascuno da otto bovi e quantità di gente, ed un mortaio tirato da dieci bovi e gente moltissima (…) Altra esecuzione. Questa mattina vi è stata anco una giustizia: fu afforcato fuori Porta Capuana d. Antonio Tramaglia. Uno dei capi saccheggiatori di Napoli è stato arrestato e sarà giudicato dalla Giunta di Stato, si crede condannato a morte. E’ dubbio se sui vascelli inglesi vi sieno state altre esecuzioni. Ma è certo che son sotto chiave o 12 o 15 cavalieri. Si son cominciate oggi delle processioni di penitenza per la città. Divertimenti e spassi. Ieri sera fu da alcuni particolari portata una lancia con musica sotto il vascello di Nelson, che la godette insieme con Amilton e Miledy di lui moglie. Questa mattina si è avuta la consolante notizia che S. M. il Re col generale Acton sia approdata a Procida (…) Disperata resistenza giacobina. Non son mancate scorrerie dei disperati Giacobini. Una ne fecero a Portici l’altro ieri, e per Napoli tutta la notte se ne incontrano partite che impudentemente al chi viva, rispondono “libertà” e fanno fuoco. Molti ne sono stati arrestati” (De Nicola, pp. 284-5).

8 Luglio. Lunedì. Un riepilogo che conferma e denuncia. “Dopo il 13 giugno notevoli gruppi di patrioti si erano asserragliati nel Castel Nuovo, nel Castel dell’Uovo e nella Vigna di S. Martino, protetta dai cannoni di S. Elmo, tenuto dai francesi. Da queste forti posizioni continuarono la resistenza. Il Ruffo cominciò allora delle trattative per ottenere pacificamente i Castelli, offrendo un’onorevole capitolazione. Questa fu firmata, il 23 giugno, dal Ruffo, dal Micheroux, dal russo Baillie, dal turco Achmet, dall’inglese Foote, comandante delle navi che in quel momento erano davanti a Napoli, e dal francese Méjan, comandante di S. Elmo, come garante per la Repubblica napoletana. Essa garantiva salva la vita ai repubblicani, i quali sarebbero usciti dai castelli con gli onori militari e avrebbero potuto imbarcarsi per Tolone, oppure rimanere a Napoli senza essere molestati. Ma il giorno successivo giunse a Napoli il Nelson col grosso della sua flotta, recando con sé anche lord e lady Hamilton. Appena arrivato, dichiarò al Ruffo di non potere accettare la capitolazione: i repubblicani dovevano essere trattati come ribelli e traditori; solo i francesi, se avessero subito ceduto S. Elmo, avrebbero potuto ritornare in patria. Il Ruffo, che era convinto della necessità di una politica di clemenza che riconciliasse alla monarchia i repubblicani e quindi in ultima analisi rafforzasse la monarchia stessa, cercò in ogni modo di persuadere il Nelson ad accettare la capitolazione. Ma il Nelson non ne volle sapere e si fece rigido interprete della politica voluta da Ferdinando e da Maria Carolina. All’ammiraglio inglese interessava, non solo di far cosa gradita alla sua amante, ma anche di annientare a Napoli il partito “francese” e di legare sempre di più il Regno alla politica inglese. Così i repubblicani, usciti dai Castelli, furono imbarcati sulle navi ma non furono fatti partire, in attesa delle decisioni del re” (Candeloro, pp. 274-5). Un testimone e un tradito. “Nelson col resto della sua flotta giunse nella rada di Napoli durante l’armistizio, e dichiarò che un trattato fatto senza di lui, che era ammiraglio in capo, non dovea esser valido; quasi che l’onorato e valoroso Food, che era persona legittima a ricevere i castelli, non lo fosse poi ad osservare le condizioni della resa; quasi che una capitolazione potesse esser legittima per una parte ed illegittima per l’altra, e, non volendo mantener le promesse fatte alla repubblica napoletana, non fosse necessario restituire ai suoi agenti tutto ciò che per tali promesse aveano già consegnato. Acton diceva e faceva dire al re, che era a bordo dei vascelli inglesi, circondato però dalle creature di Carolina: che “un re non capitola mai coi suoi ribelli”. Egli infatti era padrone di non capitolare; ma si poteva domandare se mai, quando un re abbia capitolato, debba o no mantenere la sua parola! Quanto al Nelson, che avea trovato la capitolazione già sottoscritta, che prostituisse ad Hamilton l’onor suo, l’onor delle sue armi, l’onor della sua nazione, questo è ciò che il mondo non aspettava, e che il governo e la nazione inglese non dovea soffrire” (Cuoco, pp. 189-90).

Diario delle esecuzioni. “Fu afforcato un altro patriotta” (Marinelli, p. 11).

10 Luglio. Mercoledì. Napoli. Il re Ferdinando IV giunge nella rada di Napoli ma non sbarca in città.

“Il re nomina come suoi consiglieri l’Acton, il Nelson e la regina ma non il cardinale Ruffo. Reintrodotta la tortura, si procede alla formazione di una nuova Giunta di Stato presieduta dal giudice Vincenzo Speciale che, dividendo per volere del re i prigionieri politici in “rei di maestà” (destinati al carcere o all’esilio per aver sostenuto la Repubblica) e “rei di morte” (destinati al patibolo per aver ricoperto cariche politiche o amministrative nella Repubblica), inaugura una serie di processi farsa senza alcuna possibilità di difesa” (Sani, p. 53). Una contestazione in punto di storia e in punto di diritto. “La Giunta che si era eretta per prima in Napoli si trovò per accidente composta di uomini dabbene, che amavano la giustizia ed odiavano il sangue. Ardirono dire al re esser giusto e ragionevole che la capitolazione si osservasse: giusto, perché, se prima della capitolazione si poteva non capitolare, dopo aver capitolato non rimaneva altro che eseguire; ragionevole, perché non è mai utile che i popoli si avvezzino a diffidare della parola di un re, e perché si deturpa così la causa di ogni altro sovrano e si toglie ogni mezzo di calmare le rivoluzioni (…) La Giunta intanto rammentava al governo le leggi della giustizia; ed invitata a formare una classificazione di trentamila persone arrestate (poiché non meno di tante ve ne erano in tutte le carceri del Regno), disse che doveano essere posti in libertà, come innocenti, tutti coloro i quali non fossero accusati di altro che di un fatto avvenuto dopo l’arrivo dei francesi. La rivoluzione in Napoli non potea chiamarsi “ribellione”, i repubblicani non eran ribelli, ed il re non potea imputare a delitto azioni commesse dopo che egli non era più re di Napoli, dopo che per un diritto tanto legittimo quanto quello della conquista, cioè quanto lo stesso diritto di suo padre e suo, aveano i francesi occupato il di lui regno. Che se i repubblicani avean professate massime le quali parevan distruttrici della monarchia, ciò neanche era da imputarsi loro a delitto, perché eran le massime del vincitore, a cui era dovere ubbidire (…) Al ministero di Napoli ciò dispiaceva, perché nella guerra era rimasto perdente; ma, se fosse stato vincitore, se invece di perderlo avesse conquistato un regno, gli sarebbe piaciuto che i nuovi suoi sudditi avessero conservato troppo tenacemente e fino alla caparbietà l’affezione alle antiche massime ed agli ordini antichi? Non avrebbe punito come ribelle chiunque avesse troppo manifestamente desiderato l’antico sovrano? La vera morale dei principi deve tendere a render facile la vittoria, e non già femminilmente dispettosa la disfatta. I principi della Giunta eran quelli della ragione, e non già della Corte. Gli uomini dabbene che componevano la Giunta furono allontanati” (Cuoco, pp. 191-4).

11 Luglio. Giovedì. Napoli. Resa di Castel Sant’Elmo grazie al tradimento del colonnello francese Méjan.Noi tutti siamo testimoni di aver veduto conquistarsi prima il ponte della Maddalena, poi i castelli di basso, poi Palazzo, in seguito le alture, in ultimo S. Elmo, che ha resistito più per causa dei patriotti che dei Francesi, per lo spazio di dodeci giorni continui, ed ho notizia che resisterebbe ancora per volontà dei patriotti, i quali sentendo che la guarnigione francese rendevasi a discrezione, presero le armi contro di quella, e si battettero da disperati, restandone da trenta morti nell’interno del castello” (De Nicola, 292-3). “Intanto i patrioti per Napoli erano arrestai; la partenza di quei che eransi imbarcati si differiva; Mégeant che aveva gli ostaggi nelle sue mani, Mégeant che aveva ancora forza per resistere, che poteva e doveva essere il garante della capitolazione, Mégeant dormiva. Nel tempo dell’armistizio permise che i nemici erigessero le batterie sotto il suo forte. Fu attaccato, fu battuto, non fece una sortita, appena sparò un cannone, fu vinto, si rese. Segnò una capitolazione vergognosissima al nome francese. Quando dovea rimaner solo per ricoprirsi di obbrobrio, perché non capitolò insieme cogli altri forti? Restituì gli ostaggi, ad onta che vedesse i patrioti non ancora partiti e ad onta che resistesse ancora Capua, ove gli ostaggi si poteano consegnare. Promise di consegnare i patrioti che erano in Sant’Elmo, e li consegnò. Fu visto scorrere tra le file dei suoi soldati, e riconoscere e indicare qualche infelice che si era nascosto alle ricerche, travestito tra quei bravi francesi, coi quali aveva sparso il suo sangue. Neanche Matera, antico ufficiale francese, fu risparmiato, ad onta dell’onor nazionale che dovea salvarlo e del diritto di tutte le genti. Fu imbarcato colla sua truppa, partì solo colla sua truppa, e non domandò neanche dei napoletani. E vi è taluno il quale ardisce di mettere in dubbio che Mégeant sia un traditore?” (Cuoco, pp. 190-1). “Cederono l’un dietro l’altro, sotto finte di assedio, Santelmo, Capua, Gaeta. Comandava Santelmo il capo di legione francese Megèan, che da più giorni mercanteggiava la resa del castello; ed è fama non contraddetta che l’avidità di lui, scontentata dalle tenui offerte di Ruffo, si volgesse, per patti migliori, agli Inglesi; ma, ributtato, fermò col primo; e stabilirono: rendere il castello a S. M. Siciliana e suoi alleati; esser prigioniero il presidio, ma tornando in Francia, sotto legge di non combattere sino al cambio; uscir dal forte con gli onori di guerra; consegnare i sudditi napoletani, non a’ ministri del re, ma degli alleati. Ed al seguente giorno, consegnato il castello, uscendone il presidio, furono visti i commissari della Polizia borbonica correre le file francesi, scegliere e incatenare i soggetti napoletani; e dove alcuno sfuggiva la vigilanza di quei tristi, andar Mègean ad indicarlo. Erano uffiziali francesi, benché nascessero nelle Sicilie, Matera e Belpulsi; e pur essi, vestiti della divisa di Francia, furono dati agli sbirri di Napoli. I ministri de’ potentati stranieri, come che presenti, tacevano, mancando ai patti della resa, i quali ponevano quei miseri nella potestà degli alleati. Era tempo d’infamie” –(Per il suo tradimento, che abbandona i patrioti alla repressione, il Méjan sarà sottoposto in Francia a due procedimenti penali)- (Colletta, 364-5). “Capitolarono i francesi di S. Elmo e furono fatti partire per la Francia; ma i patrioti, che ancora per diversi giorni si erano eroicamente difesi nella Vigna di S. Martino, furono dal Méjan consegnati al governo borbonico. Il Méjan stesso scoprì tra i suoi alcuni patrioti in divisa francese (tra questi il Matera, che era stato effettivamente ufficiale francese) e li consegnò ai borbonici. Tornato in Francia, il Méjan fu accusato dallo Championnet per il suo vile contegno e deferito al Consiglio di guerra; ma fu soltanto riformato e poi ripreso in servizio. L’accusa fattagli di aver ceduto sant’Elmo per danaro è provata da documenti scoperti in tempi recenti” (Candeloro, p. 275).

Continuano le esecuzioni. “Domani vi sarà giustizia di un tale di cognome Carlo Magno deciso patriotta e di quel frate francescano di cognome Belloni, forastiere, che tanto andava predicando libertà per Napoli. Questa sera vi è stata la solita illuminazione di gioia” (De Nicola, p. 292).

 

Nota bibliografica

M. Battaglini, “La rivoluzione giacobina del 1799 a Napoli”, D’Anna, Firenze, 1973

L. Blanch, “Scritti storici”, 1945

G. Candeloro, “Le origini del Risorgimento”, Feltrinelli, Milano, 1978, v. I

P. Colletta, “Storia del Reame di Napoli”, ESI, Napoli, 1969, v. II

G. Cucciniello, “Politica e cultura negli Illuministi meridionali”, Principato, Milano, 1975

V. Cuoco, “Saggio storico sulla rivoluziona napoletana del 1799”, Laterza, Bari, 1976

Carlo De Nicola, “Diario napoletano (1798-1825)”, Napoli, 1906, vol. I

D. Marinelli, “La caduta di Napoli”, La città del sole, Napoli, 1998

V. Sani, “La repubblica napoletana del 1799”, Giunti, Firenze, 1997

F. Serrao de’ Gregorj, “La repubblica partenopea e l’insurrezione calabrese”, Firenze, 1934, v. I

P. Villani, “Mezzogiorno tra riforme e rivoluzione”, Laterza, Bari, 1973