La Repubblica Napoletana. Cronaca e storia. 1 – 20 Agosto 1799. “I risentimenti e le illusioni dei sanfedisti. Condannato il cardinale arcivescovo di Napoli. La nuova Giunta di Stato. L’inizio della carneficina. Feste e ringraziamenti”.

Cronologia della Repubblica giacobina napoletana. Trentunesima puntata. 1 – 20 Agosto 1799. “I risentimenti e le illusioni dei sanfedisti. Condannato il cardinale arcivescovo di Napoli. La nuova Giunta di Stato. L’inizio della carneficina. Feste e ringraziamenti”.

 

Comincio a scrivere, in molte puntate, una cronologia dettagliata degli avvenimenti che –giorno dopo giorno- caratterizzarono l’esperienza della Repubblica giacobina napoletana e meridionale del 1799. Ai fatti intreccerò le opinioni e i commenti dei cronisti di quei giorni e degli storici otto-novecenteschi per far convivere la cronaca in presa diretta con uno sguardo panoramico in posizione arretrata: costruendo così una struttura alla quale appendere una serie immensa di fatti, delitti, eroismi, pensieri, avventure, sacrifici, ideali.

Voglio rivivere io e far rivivere ai lettori –nei limiti del possibile- le esaltazioni e le sofferenze di quelle giornate, gli entusiasmi e i fanatismi, le contraddizioni e le illuminazioni, così che risulti più chiaro, o meno oscuro, l’avvilupparsi contrastato degli episodi. “La storia è il corpo” –ha scritto Alexander Ross- “ma la cronologia è l’anima della scienza storica”, anche se (aggiungo io) la linea del tempo non spiega il Tempo, ma questo lo sappiamo da sempre senza riuscire bene a spiegarlo. Bisogna sempre tenere a mente un pensiero di George Santillana: “Quelli che non hanno familiarità con la storia sono condannati a ripeterla senza nessun senso di ironica futilità. Ci sediamo a guardare, e la storia si ripete. Non abbiamo imparato niente? No, non abbiamo imparato niente”.

Tanti anni fa, ero studente di liceo, lessi per la prima volta le cronache di quella rivoluzione. Mi colpirono, in modo vivissimo, il martirologio finale, l’eroismo civile dei patrioti impiccati e decapitati, i tanti morti ammazzati negli scontri, la furia selvaggia della plebe, la ferocia vile della monarchia borbonica. Fui indotto a riflettere sulla separazione drammatica che i tragici fatti di quei mesi avevano prodotto, nel Sud dell’Italia, tra il ceto colto e illuminato e la grande massa della popolazione, un dato che era già stato anticipato –sia pure in misura minore- nella guerra antifeudale del 1647-’48.

“Alla fine del Settecento la situazione nelle regioni meridionali italiane si presentava in modo gravemente sbilanciato: da un lato la popolazione era aumentata, la produzione pure, il prezzo dei cereali ed altre derrate era salito moltissimo, il commercio si era intensificato, le terre comunali erano state divise, le proprietà nobiliari e borghesi si erano moltiplicate; dall’altro il lavoro scarseggiava ed erano cresciuti i disoccupati, i salari erano rimasti quelli di mezzo secolo prima, la piccola proprietà contadina era in crisi, dilagavano pauperismo e brigantaggio, c’era una fuga costante dai villaggi rurali verso le città. Non si erano sviluppati nuovi moderni rapporti di lavoro nelle campagne, non si erano visti massicci investimenti di capitali, sviluppo di manifatture, una riorganizzazione finanziaria e creditizia. Le continue usurpazioni a danno delle proprietà comunali prima, la quotizzazione dei demani poi a vantaggio dei proprietari borghesi avevano accelerato un generale processo di proletarizzazione contadina e diminuito le già scarse possibilità di sopravvivenza delle grandi masse popolari. A ciò si aggiungeva che l’attacco ai beni ecclesiastici e la soppressione di parecchi conventi avevano peggiorato la situazione dei contadini inaridendo l’unica possibilità per essi di avere piccoli prestiti ad un tasso modico di interesse ed esponendoli al ricatto delle speculazioni usuraie dei mercanti (la Chiesa, infatti, esercitava da sempre un prestito di denaro ai piccoli coltivatori, allevatori ed artigiani ad un basso saggio di profitto per venire incontro alle loro esigenze immediate). Le poche e contrastate riforme che s’erano fatte avevano colpito, in ultima analisi, le forze socialmente più deboli (i contadini) o politicamente più scoperte (il clero), aumentando anzi il potere dei gruppi più potenti: da ciò uno squilibrio sociale, una tensione e un’inquietudine popolari crescenti”. (Questo avevo scritto in un mio libro nel 1975, Cucciniello, p. 9). Questa mia analisi era stata confermata, qualche anno dopo, dal giudizio di G. Galasso: “Complessa, pluridimensionale e contraddittoria era l’articolazione nazionale del popolo meridionale, con la difficoltà obiettiva di stringere in un unico nesso le molte e discordi fila di una storia singolare. Diversi i gradi di differenziazione e di mobilità sociale, diversi la natura e il ritmo di sviluppo delle attività economiche, diversi il folklore e gli usi e i costumi, forti i caratteri di disgregazione sociale e di debolezza dello spirito pubblico”. In un contesto di questo genere si collocano i fatti di cui qui si narra. Senza sottovalutare un dato: l’illuminismo armato di Bonaparte frantumerà anche nel Sud Italia le illusioni delle élites liberali e patriottiche.

Certo, c’è un rischio in questo lavoro ed è quello che si arranchi dietro agli avvenimenti alla ricerca di una contemporaneità coi fatti che giorno dietro giorno vediamo svolgersi sotto gli occhi, fatti dei quali afferriamo solo il senso ristretto e localistico, sfuggendoci la dimensione universale di cose che in quegli anni stavano trasformando l’Europa. Già Huizinga nel 1919, in “L’autunno del Medioevo”, sosteneva che i passaggi storici erano un lento declinare della vecchia epoca unita all’incubazione di una nuova età: e proprio il nostro 1799, paradigmaticamente, è un intrecciarsi terribile di perduranze –anche superstiziose- e di utopie innovative. Si può anche restare affascinati dal gioco dei “si dice”: un gioco vario, imprevedibile, che riesce quasi a darci il respiro intimo del tempo, la voce pubblica nel suo dinamico e contrastato formarsi. I “si dice” riflettono il tessuto mutante delle opinioni e permettono quasi di vedere l’avvenimento prima ancora che sia accaduto, nei mutamenti anche psicologici che lo preparano e lo determinano. Si sa, una cronaca puntigliosa, infinita può essere insensata e inutile. Se essa è legata, invece, ad una storiografia che è ricerca mirata, orientata da problemi e da valori, interpretazione documentata, può favorire l’abitudine al giudizio informato, il possesso di un metodo, la conoscenza strutturata di nozioni, il confronto con una varietà di analisi, distinte con chiarezza nelle loro premesse e nelle loro conseguenze.

Non scrivo di più. Ho usato un metodo di ricerca attento alla decodifica delle informazioni e alla validazione delle fonti. Lascio ai lettori l’interpretazione dei dati e le conclusioni che vorranno trarne.

Gennaro Cucciniello

 

1 Agosto. Giovedì. I risentimenti e le illusioni dei sanfedisti. “Vi è stato quest’oggi gran salva di cannoni nei castelli e bastimenti a mare, ed illuminazione per tre sere in città per la vittoria di Nelson in Alessandria d’Egitto contro i Francesi. Partono per le provincie del Regno alcuni Visitatori o Inquisitori, per estirpare, com’essi dicono, i mali intenzionati o Giacobini dalle dette Provincie. Questi fecero man bassa, dando sfogo alle loro passioni, ed arricchendosi. Le Provincie stavano malcontente, credendo i Santafedisti ch’erono esenti dai Dazj dopo aver riacquistato il Regno. Credevano di averlo riacquistato per loro. In città regna ancora la ferocia e la sfrenatezza nel Lazzarismo” (Marinelli, pp. 13-4).

Condanne. Esiliato a vita Decio Coletti, 46 anni. Ha fatto parte nel governo rivoluzionario della Commissione Legislativa ed è stato commissario dipartimentale del Volturno. Esiliato a vita Michele De Tommaso, 35 anni. Condannato già nell’aprile del 1796 dalla Giunta di Stato, durante la Repubblica membro della Commissione Legislativa. Esiliato a vita Pasquale Falcigni, 32 anni, avvocato; è stato membro del Governo Provvisorio. Esiliato a vita Gherardo Mazziotti, 24 anni, giudice di pace nei tribunali repubblicani. Nel 1828 sarà implicato nel moto del Cilento; il fratello Pietro morirà nelle prigioni di Salerno. “Le donne dei patrioti prigionieri, spregiate nelle sale dei ministri, scacciate dalle porte delle prigioni, oltraggiate dalle lascivie degli scrivani e dei giudici, tolleravano pazientemente le offese”.

2 Agosto. Venerdì. Condannato l’arcivescovo di Napoli.Quest’oggi si eseguisce la funzione fuori porta Capuana di ponersi la Croce dov’era l’albero della Libertà, e vi assisté il cardinale Ruffo. Si parla di arresto di gran persone. Ieri fu arrestato il Principino di Canosa e Castelluccio. Si è dato l’ordine, che si è eseguito, che il cardinale Zurlo Arcivescovo di Napoli, parta da Napoli, come specie di esilio, ed andiede a Montevergine, dove morì. Restò a governare la sua grege il vescovo di Capaccio Torrusio, celebre santafede, ch’aveva adottato tutti i partiti, e che poi si trovò esser Realista. Seguitano gli saccheggi e massacri nelle provincie, in cui molte famiglie si estinguono, e gli avversarii se ne appropriano” (Marinelli, 14).

3 Agosto. Sabato. Fantasmi. Napoli. “Si dice che ieri comparve a fiore d’acqua, vicino la nave del Re, che era in rada, il cadavere di Caracciolo, poco guasto e niente alterato. Fu tolto e seppellito in S. Lucia” (Marinelli, 14). Impiccagioni. Si è eseguita giustizia nel Castello del Carmine, essendo stato afforcato il colonnello D. Gaetano Rossi (Russo). Sono stati calati a terra e portati nei Castelli molti rei detenuti sulle navi, e comparsi nella Capitolazione dei Castelli, e tra gli altri D. Domenico Cirillo e D. Mario Pagano” (Marinelli, 15). Liti e scontri. “Quest’oggi vi è stata briga tra gli Calabresi e gli venditori di pesce di S. Lucia. Gli Calabresi si avevano preso una cinquantina di ducati di pesce, e volevano pagare solamente grana otto. Per frenarli vi è accorsa Truppa, ed a stento si è frenato il furore” (Marinelli, 14-5).

4 Agosto. Domenica. Ancora massacri. Napoli. “Questa mattina sono stati massacrati due patrioti fuori Porta Capuana, morti sotto il bastone, e tra gli altri un Parroco vicino Napoli, e perché tentavano di togliere la Croce, situata di fresco, fuori porta Capuana” (Marinelli, p. 15). La festa per S. Antonio. “Si è portata in processione la statua di S. Antonio, che fu la causa della vittoria sopra i Repubblicani. Vi è stata grande allegrezza tra la minuta plebe. Gran propine perciò. Si cercava denaro per la festa per S. Antonio, ed esso denaro se lo appropriavano, e guai a quei che lo negavano, ch’erano presi per Giacobini. Ciò successe ad uno che non avendo denari per darli per detta festa fu preso per giacobino e stiede carcerato per mesi. Oggi si cerca frenare la Lazzeraria e Calabresi, per frenare l’Anarchia e la di loro baldanza, ma vi voglion anni per riuscirci. Si vive nei palpiti continui” (Marinelli, pp. 15-6).

5 Agosto. Lunedì. Napoli. “Questa mattina è partito pel suo esilio il cardinal Zurlo, ritirandosi in Loreto, Ospizio di Montevergine. Colà visse da buon cristiano e vi morì nel 1801. Molti rei compresi nelle Capitolazioni dei Castelli oggi son partiti per l’esilio perpetuo, essendo stati trasportati in Marsiglia. Il colonnello Rossi fu appiccato sabato ad un’ora di notte” (Marinelli, p. 16).

6 Agosto. Martedì. Napoli. Ancora sulla nuova Giunta di Stato. “Oggi è partito il Re dalla rada di Napoli portandosi in Palermo. Si crede di sicuro che nel partire abbia lasciato le leggi alla Giunta di Stato per giudicarsi i Rei, com’essi devono esser sentenziati. Si nota, che la legge è posteriore al delitto. I membri della detta Giunta di Stato erano i seguenti: D. Felice Damiani, Presidente, Siciliano; D. Vincenzo Speciale, Siciliano, il più celebre sanguinario; D. Gaetano Sambuti, Siciliano; D. Angelo Fiore, Calabrese, Santa Fede; D. Antonio della Bossa, anche Santa Fede; e il Fiscale della Giunta, il Barone Guidobaldi, forse il più infame di tutti. Uno dei generali venuti col Ruffo si fu il generale Sciarpa, o sia Curcio. Per i suoi meriti è stato fatto Barone con 3500 ducati annui, e colonnello in Provincia. Pure si lagna. Esso era stato prima omicidiario, poi sbirro, e finalmente in quest’occasione Generale. Si appropriò molto pel saccheggio di Napoli” (Marinelli). Un’analisi minuziosa e precisa. “Il re medesimo, nel preambolo della legge di maestà, dichiarava di non aver mai perduto il suo reame; essere stato, benché in Sicilia, come sul trono di Napoli; dover quindi riguardare ogni atto de’ sudditi, se contrario ai doveri antichi, tradimento, e se offensivo della regale autorità, ribellione. Egli era nel giorno istesso (però che le due leggi avevano la stessa data) conquistatore e vinto, fuggitivo e presente, privato del regno e possessore. Da questi princìpi egli trasse le ordinanze per la Giunta di Stato, dichiarando rei di maestà, in primo grado, coloro che, armati contro il popolo, diedero aiuto ai Francesi per entrare in città o nel regno; coloro che tolsero di mano ai lazzari il castello Santelmo; coloro che ordirono col nemico segrete pratiche dopo l’armistizio del vicario generale Pignatelli. E rei di morte i magistrati primari della Repubblica, rappresentanti del Governo, rappresentanti del popolo, ministri, generali, giudici dell’Alta Commissione militare, giudici del Tribunale rivoluzionario. E rei di morte i combattenti contro le armi del re, guidate da Ruffo. E reo di morte chi assisté all’innalzamento dell’albero della libertà nella piazza dello Spiro Santo, dove fu atterrata la statua di Carlo III; e chi nella piazza della reggia operò o vidde il distruggimento delle immagini regali o delle bandiere borboniane ed inglesi. E reo di morte quei che scrisse o parlò ad offesa delle persone sacre del re, della regina, della famiglia. E rei di morte coloro che avessero mostrata empietà in pro della repubblica o a danno della monarchia. Quarantamila cittadini, a dir poco, erano minacciati dalla pena suprema, e maggior numero dell’esilio; col quale si castigavano tutti gli ascritti a’ club, i membri delle municipalità e gli impiegati della milizia, benché non combattenti (…) Così prestabilite le scale dei delitti e delle pene, con legge detta in curia retroattiva, perciocché le azioni la precedettero; e scelti a grado i magistrati, bisognavano le regole del procedimento. Quelle dei nostri codici non bastando al segreto ed alla brevità, furono imitate le antiche dei baroni ribelli della Sicilia; ed erano: il processo inquisitorio sopra le accuse o le denunzie; i denunziatori e le spie validi come testimoni; i testimoni ascoltati in privato, e sperimentati, a volontà dell’inquisitore, coi martori; l’accusato solamente udito su le domande del giudice, impeditegli le discolpe, soggettato a tortura. La difesa nulla; un magistrato, scelto dal re, farebbe le mostre più che le parti del difensore; il confronto tra l’accusato e i testimoni, la ripulsa delle pruove, i documenti e i testimoni a discolpa, tutte le guarentigie dell’innocenza, negate. Il giudizio, nella coscienza dei giudici; la sentenza breve, nuda, sciolta dagli impacci del ragionamento, libera come la volontà; e quella sentenza inappellabile, emanata, letta, eseguita nel giorno istesso” (Colletta, pp. 376-7).

10 Agosto. Sabato. Napoli. Giacobini nascosti. “Oggi vi è stato un allarme dalla parte della Trinità degli Spagnoli, perché in una grotta di meloni, essendo calato il padrone di quelli, ha inteso dirsi: “cittadino, chi vive? Non vi avanzate”. E’ fuggito subito sopra ed ha gettato l’allarme nel quartiere. Ieri sulla strada dell’Infrascata vi erano posti avanzati di truppa, perché si erano intese delle voci negli acquedotti che là sono. Persona che ha parlato con un ribelle imbarcato, mi dice che stanno essi con la massima intrepidezza, e colla fiducia di tornare, e negano tutte le notizie dei vantaggi delle armi alleate in Italia” (De Nicola, p. 340).

11 Agosto. Domenica. Napoli. Grandi festeggiamenti realisti. “Grandi feste vi sono state oggi. Questa mattina un’unione di cavalieri, uniti al Governo della Casa Santa dell’Annunciata, ha celebrata festa solenne, con invito di Nobiltà e ministero in quella chiesa. Ed oltre la musica, vi è stata anche la distribuzione di cinquanta maritaggi. Il dopo pranzo con solenne pompa e intervento anco di ministeri e Nobiltà, Sua Eminenza Ruffo ha benedetta la croce innalzata al largo del Mercato e nel luogo d’onde fu tolto l’infame albero. Una ricca e solenne processione è calata da Capodimonte con la statua di S. Antonio da Padova, e terminava con una macchina a guisa di presepe, in cui si vedeva lo stesso santo che abbatteva i ribelli, fra questi si distinguevano i pupi rappresentanti le persone di Pagliuchella e Michele il Pazzo” (De Nicola, pp. 340-1).

12 Agosto. Lunedì. Napoli. “Oggi si son vedute arrestate due giovani persone, un uomo ed una donna, e si è detto essere marito e moglie. Si è veduto trasportarli a piedi alle carceri, e alla punta di un’asta portavano i capelli posticci che gli avevano strappati, essendo tutti e due rimasti in zazzera. Avevano l’aria di essere gente pulita. Dovrebbe finalmente porsi fine a tali arresti per le strade. Il popolo è reso insolente, e non rispetta né superiori, né ordini. Sento però che si siano date già disposizioni per metterlo a dovere (…) Sono al numero di 564 rei di Stato quei che si detengono nel castello Nuovo, e fin ora ne son calati 17 nella caverna detta del Coccodrillo, ove non hanno che galletta, alici salate e acqua” (ibidem).

14 Agosto. Mercoledì. Napoli. Un’altra esecuzione. Viene impiccato Oronzio Massa, colonnello d’artiglieria, che aveva firmato la capitolazione di Castelnuovo. “Il colonnello Massa, che fu impiccato, parlando la sua causa disse: “che quello che gli rincresceva, era stato l’aver egli sacrificati tanti coll’aver fatta quella capitolazione; giacché fu egli che la fece, ma che aveva creduto alla parola di cinque Re, che non poteva supporre gli venisse meno. Io, diceva, aveva polvere, palle, cannoni, gente non me ne mancava, chi m’impediva di sostenermi nel castello? Alla peggio poteva essere levato dal mondo saltando in aria, ma non sarei morto condannato come Giacobino”. Fu ciò non ostante condannato ed eseguito” (De Nicola, p. 347).

“Alcuni Giacobini detenuti sui bastimenti in mare sono calati a terra per essere trasportati nelle carceri. Tra gli altri è calato a terra e trasportato a Parete mio fratello Angelo, ed ha sofferto molto dalla vil plebe, come gli altri, e tra l’altro, gli ponevano in bocca ogni lordura, che trovavano per terra” (Marinelli, p. 17).

15 Agosto. Giovedì. Napoli. “Nella giornata di oggi niuno accidente positivo vi è stato; allegria generale, feste per le strade, e suoni, canti e balli popolari da per tutto (De Nicola, p. 344).

16 Agosto. Venerdì. Napoli. Si allargano le carceri. Altri 500 rei di Stato passano questa notte alle carceri di S. Maria Apparente (Parete), altra quantità se ne manda a Ventotene, per cui fu mandato in quest’isola un ingegnere per accomodare il luogo ove devonsi ritenere” (De Nicola, ibidem).

17 Agosto. Sabato. Napoli. Si delinea una parvenza di opinione pubblica. Si fanno con molta fretta le cause dei rei di Stato che stavano nel castello Nuovo e dell’Ovo che capitolarono, e stanno tutti per la vita. Il pubblico sente male che non si voglia stare alla capitolazione fatta, perché si dice, sia vero che coi ribelli non si deve capitolare, ma questi avevano i forti in mano, potevano sostenersi, far danno alla città, e cedettero capitolando col Vicario Ruffo e coi generali Moscovita e Turco che sottoscrissero la capitolazione. Non standosi dunque a questa si manca al diritto delle genti. Questo è il discorso generale, che cagiona anche dei timori. Si dicono poi i seguenti aneddoti che gli corrispondono. Si dice che Manthoné, costituitosi, avesse domandato se si volesse stare alla capitolazione dal Re, alla capitolazione fatta dal suo Vicario e suoi generali. Rispostogli che no, egli avesse replicato: “dunque sosterrò sempre che è un tiranno”, e non volle dir altro. Poi si è detto che il generale Moscovita abbia fatto sentire, o che si stia alla capitolazione, o ch’egli parte colla sua gente, perché non deve permettere che vada a morte quella gente che fidando nella sua parola si era resa ed aveva capitolato (…) Suicidi. Un tal d. Gaetano Olivieri, di professione legale, si era molto riscaldato della ubriachezza repubblicana; entrate le armi del Re, gli fu saccheggiata la casa, ed ei fuggì nell’Arenella, ove stava nascosto. Giorni sono, dato di volta, si gittò da un balcone e morì lasciando moglie e figli (…) Effemeridi. Ora vi è stato un tal d. Vincenzo Giacobino, il quale ha chiesto cangiarsi il cognome, anche perché pericoloso nelle attuali circostanze. Il suo ricorso fu rimesso alla Real Camera, che ha consultato affermativamente, accordandogli di poter assumere il cognome della madre. Viltà causidica. Il costituto del duca di Cantalupo, Domenico (o Raimondo?) De Gennaro, anco si dice essere stato bizzarro. Egli disse aver accettata la carica di rappresentante per quella stessa ragione per la quale il Re era fuggito da Napoli, cioè per non essere massacrato. Bisogna però fargli giustizia, ch’egli nel Governo Provvisorio e poi nella Legislativa si opponeva sempre alle determinazioni nocive e tiranniche, per cui più di una volta fu malmenato dai circostanti” (il 19 dicembre sarà condannato all’esilio a vita, ndr) (De Nicola, pp. 344-6). “Questa notte venendo la domenica è giunto in Napoli arrestato il conte di Ruvo, preso nella resa di Pescara colle capitolazioni, essendo stato la sera in Capua, ed è giunto verso otto ore” (Marinelli, p. 18). Oggi la Giunta di Stato ha condannato a morte Giuliano Colonna, Gennaro Cassano Serra, Niccolò Pacifico, Vincenzo Lupo, Domenico ed Antonio Piatti, Michele Natale, Eleonora Fonseca Pimentel; all’ergastolo Giovanni Riario marchese di Corleto, Giuseppe Abbamonte, Giuseppe Albarelli e Giuseppe Piatti. La pena di morte per Giuseppe Caracciolo, principe di Torella, sarà sospesa dal re. La Giunta ha condannato, ancora, Francesco e Pietro Piatti, Emanuele Mastellone e Pasquale Salerno alla relegazione a vita in un’isola, con la confisca dei beni. “Alle ore 8 della notte si sciolse la Giunta dopo aver condannato 18 dei rei di Stato alla morte; quattro nobili ad essere decollati, gli altri afforcati. Il solo Mastellone ha salvata la vita, essendo stato condannato a pena perpetua. Tutti costoro erano compresi nella capitolazione, per cui si parla generalmente” (De Nicola, p. 347).

18 Agosto. Domenica. Napoli. Tentativo di rivolta nelle carceri? “La notte scorsa è stato tentato di forzare le carceri di S. Maria Apparente, ossia a Parete, ove stavano detenuti quantità di rei di Stato, è riuscito vano il disegno, e questa mattina si son calati da Parete e trasportati alle carceri della Vicaria molti di quei detenuti” (De Nicola, p. 346).

20 Agosto. Martedì. Napoli. L’inizio della carneficina. “Circa le ore 19 si è cominciato ad eseguire la giustizia di rei di Stato. L’esecuzione si è fatta nella piazza del Mercato, ove si dice che il concorso del popolo è stato immenso, non ostante che si bruciasse al sole scoverto. La gran piazza era tutta circondata da truppa di linea e di massa, due interi regimenti di cavalleria, artiglieria puntata. Castello chiuso, e ponti alzati, e nell’interno del Castello truppa di riserva” (De Nicola, p. 350). “Giorno memorabile. Vi è stata gran Giustizia nel Mercato di Napoli. Due son stati decollati, ed altri afforcati” (Marinelli, p. 19).

Decapitato Giuliano Colonna, principe di Aliano, 31 anni. Ufficiale delle Guardie del Corpo del Re, era stato imprigionato per motivi politici nel 1794, liberato nel 1798. Nella Repubblica era stato capitano delle Guardie nazionali. “Prima si è eseguita la decollazione di Colonna: era rassegnato ed ha posta volontariamente la testa sul tronco” (De Nicola, 350). “Giuliano Colonna non si sa perché fosse così trattato” (Marinelli, 19).

Decapitato Gennaro Serra, duca di Cassano, 27 anni. Aveva aderito alla Repubblica e nominato il 25 febbraio comandante in seconda della Guardia nazionale della città di Napoli. Il 13 giugno aveva combattuto da eroe a Capodimonte contro il Ruffo. “Fu più risoluto” (De Nicola, ib). “Buon giovine, di buon senso, amato da tutti, e gran letterato, sebbene di tenera età. Nell’esser decollato, vedendo il giubilo della plebaglia, disse queste parole: “Io ho sempre desiderato bene ad essi e questi giubilano per la mia morte” (Marinelli, ib).All’una del pomeriggio erano entrati nella cella i barbieri e i preti, per ripulire il collo dalla peluria e le anime dai presunti peccati. Gennaro raccolse una ciocca dei suoi capelli e l’affidò ad una guardia perché la consegnasse alla sua famiglia. E’ tuttora conservata (…) Al tramonto scalò il patibolo con le mani legate. Disse quella frase: “Ho sempre lottato per il loro bene e ora li vedo festeggiare la mia morte”. Il boia gli spaccò la camicia sul petto per meglio esporlo alla lama. Il sangue di Gennaro schizzò sui lazzari in prima fila” (Gargano, p. 32). “Don Giuliano Colonna e Don Gennaro Serra furono decollati senza pompa, val dire senza che il palco sia parato, senza l’assistenza dei camerieri e servitori vestiti di gala per aiutarli, appoggiarli e spogliarli, accomodando loro la camicia rotta da dietro e calata alla metà del petto, e accompagnandoli sul palco; non dovendo far altro il boia che ligare le mani in dietro alle spalle e tagliare la cordella che sostiene la mannaia, e il tirapiede tenere il capo curvato nel proprio sito per mostrarlo poi a tutto il popolo” (Cronista di S. Paolo). “Il popolo in gran numero concorre a spettacoli tanto funesti, mosso da una vana curiosità e forse anche da un fanatismo di falsa pietà, che va di giorno in giorno degenerando in ferocia. A ciò deve il Governo procurare di ovviare, ordinando al carnefice, che serbi la modestia che è assolutamente necessaria, che non denudi affatto i cadaveri, che serbi assolutamente silenzio ed usi carità in quell’orrenda funzione, avendo ardito buttar per l’aria la berretta, e eccitare il popolo a indiscrete grida e a segni d’inumano compiacimento; e deve il Governo ordinare ben anche per punto generale, che i pazienti vadano sempre bendati, che tutti i giustiziati siano sempre immediatamente seppelliti per non lasciarli in balia della sfrenatezza e deplorabile ferocia del popolo, e che finalmente la truppa che v’interviene per sedare il popolo, non parta se non dopo seppelliti quegl’infelici” (dalla lettera di protesta dei Bianchi della Giustizia alla Gran Corte, inviata subito dopo l’esecuzione)” (Gargano, pp. 38-40).

Impiccato il sacerdote Don Nicola Pacifico, 72 anni, grande botanico e poeta. “E’ seguita indi la giustizia degli afforcati, ed è incominciata dal sacerdote Pacifico, il quale si è levato dalla forca, perché Napoletano” (De Nicola, ib). “Canuto e grasso, che appena si poteva muovere. Era stato carcerato molti anni per preteso reo di Stato. Venendo i Francesi, e uscito di prigione, servì, sebbene vecchio, la Truppa Civica. Era tutto fuoco per la libertà. Era letterato ed Antiquario, comodo di sua Casa. Il cardinale Ruffo, che gli era stato discepolo, lo voleva liberare, ma egli mai si abbassò di negar se stesso e i suoi sentimenti” (Marinelli, 20). “Il sacerdote, attempato e corpulento, a stento s’inerpicò sulla scaletta” (Gargano, ibidem).

Impiccato Mons. Michele Natale, vescovo di Vico Equense, 48 anni, attivo e convinto sostenitore della Repubblica. Autore di un Catechismo repubblicano per l’istruzione del popolo e la rovina dei tiranni. “Il vescovo di Vico era Giacobino a forza, perché perseguitato. Compose il Catechismo repubblicano cristiano, ch’io non ho mai letto. E’ notabile per essere il primo Vescovo afforcato, e forma epoca nella Storia Ecclesiastica. Il boia, sebbene non storico, ci si spassò molto sulle di lui spalle, dicendo che un’altra volta non avrebbe niuno questo gusto” (Marinelli, ib). “Mons. Natale è morto rassegnatissimo, e ieri nell’atto di sua dissacrazione, mostrò il suo vivo pentimento, disse esser stato traviato per la lettura di libri velenosi e cattiva compagnia avuta, ed esortò i Vescovi della funzione a profittare del suo esempio” (De Nicola, ib). “Il boia eccitò la suburra, toccò i genitali del prelato, gettò il berretto al cielo, rivendicando l’onore senza precedenti di impiccare un vescovo” (Gargano, 33).

Impiccato Vincenzo Lupo, avvocato salernitano. “Si rivelò ardimentoso” (Gargano, ibid). “Per essere stato carcerato molti anni, per le sevizie sofferte si fece Giacobino, essendo stato in tempo della repubblica presidente dell’Alta Commissione Militare” (Marinelli, 20). “Bello e maestoso, va a morte coraggiosamente dicendo agli amici: “vi lego il mio odio contro la tirannide” (Serrao, p. 289).

Impiccati Antonio e Domenico Piatti, padre e figlio, banchieri, “negozianti e buoni repubblicani” (Marinelli, ibid).

Impiccata Eleonora Fonseca Pimentel, 47 anni, letterata. Entrata nelle file giacobine, fu imprigionata nel 1798. Dal 2 febbraio all’8 giugno redattrice del “Monitore Napoletano”, il più importante giornale politico della Repubblica. “Ella era vestita a bruno, colla gonna stretta alle gambe. Il popolo ad ogni esecuzione dava dei gridi di viva il Re. All’uscire della Pimentel voleva gridare, ma al cenno dei Bianchi si è quietato, al cadere però di lei le grida sono andate alle stelle, avendomi assicurato un padre di SS. Apostoli, che si sono intese fino al loro monastero (…) Mentre ogni cuore sensibile sente pena di tal carneficina, conviene però che confessi meritare tal pena coloro che avevano giurata la perdita di tutti i buoni, e le crudeli esecuzioni fatte sotto il loro Governo, bastano a giustificare il loro castigo” (De Nicola, ib). “La Fonseca Piementel andiede alla morte con intrepidezza, ed essendo nell’atto di morire, salutò alla meglio gli afforcati già morti suoi compagni” (Marinelli, ib). “L’ultima a scalare il patibolo fu Donna Eleonora. Prima di consegnare la sua vita, bevve un caffè e disse in latino: “Un giorno sarà utile ricordare tutto questo”. Con la corda al collo salutò i compagni, un mucchio informe là sotto. Il vento, di tanto in tanto, portava urla disumane fino al Monte di Dio. Il duca Luigi Serra di Cassano attese nella sala d’ingresso del suo palazzo, sotto lo stemma di famiglia, che l’eco della brutalità sfumasse. Sullo stemma era scritto: Venturi aevi non immemor. Tornato il silenzio, il duca discese lo scalone e andò a chiudere il portone di fronte alla Reggia del Borbone, simbolo di un potere disumano. Lo serrò con forza, con un tonfo di disprezzo. Venne una pioggia improvvisa, a lavare il sangue e le macchie di vomito nella piazza del Mercato. L’altra macchia restò, indelebile” (Gargano, pp. 33-4).

“Eleonora Pimentel aveva chiesto la grazia di ricevere la morte con la scure e non col laccio. Ma la Giunta, che per ironia osservava religiosamente le prerogative dei nobili del regno sulle formalità della morte, non le accordò questa domanda (…) Ella, vestita di bruno, salì ultima, cristianamente ma coraggiosamente, sul patibolo. L’animo gentile della donna si manifestò anche in quel supremo momento. Intorno giacevano spenti i suoi compagni, ed ella rivolse loro un ultimo saluto. Il corpo penzolante dal patibolo restò esposto per un intero giorno alla vista e agli insulti del popolaccio (…) Il corpo fu sepolto il 21 agosto nella chiesa di S. Maria di Costantinopoli. Non bisogna mai dimenticare che la rivoluzione napoletana del 1799 fu la sola in cui le donne salirono al patibolo: segno delle grandi forze vitali espresse in quei mesi drammatici” (Croce, “La rivoluzione del 1799”, pp. 72-3).

Una rievocazione romanzesca. I preliminari. “Si dispone il corteo, secondo misterioso stolido rituale. Avanti i soldati, poi le guardie, i Bianchi, uno sbirro che porta lo stendardo blu e d’oro della Vicaria, il trombetta che squillerà e strillerà: “Questa Giustizia la manda la Gran Corte della Vicaria, delegata per Sua Maestà il Re. Questo è Gennaro Serra, duca di Cassano, e si decapita per essersi reso reo di Stato. Questo è monsignor Natali, vescovo di Vico Equense, e s’impicca per essersi reso reo di Stato. Questo… E questa…”. “A proposito, padre De Forti. Avete posto il mio quesito?”. Egli scuote il capo: “Non hanno voluto”. Allora il Trombetta strillerà: “Questa è Eleonora de Fonseca, che s’impicca per essersi resa rea di Stato”. Di lì a poco, infatti, mentre s’esce al fuoco del sole, nella grande piazza gremitasi come per incanto, il trombetta squilla e annuncia. Si costeggia la porta nera e bianca. Oltre il mare di teste s’erge il palco nero e argento, come lo vide la prima volta, quando Vincenzo Sanges le spiegava Napoli. Passano per il vicoletto Sospiro de ‘Mpisi. Folla ai balconi, davanti ai bassi, i lazzari son tornati dal mare cotti e stupiditi di sole, ma si stanno svegliando per il nuovo spettacolo. In molti occhi coglie cupidigia, letizia da bambini. La folla si stende fin oltre Sant’Eligio, nei vicoli dei Campagnari, degli Spicoli, dei Parrettari. “Posso pregare per voi, figlia mia?” sussurra padre De Forti, mentre il corteo sale la scaletta del palco. Gli risponde con sorriso breve. Si sente stanca. Tanto stanca. I Bianchi sono andati a disporsi nel fondo, sbirri e soldati giù. Il boia vestito di rosso resta padrone della scena. Va a tentare il cappio delle forche, alza e appoggia la mannaia luccicante sopra il ceppo, s’asciuga il sudore. Cerca di dare un po’ di scena, ma sembra affaticato. Si leva il farsetto, lo piega con cura, va a deporlo in un angolo. La folla è ancora inerte. Segue i preparativi, fa brusio, ma il sole continua a picchiare, l’afa opprime. Tuttavia timidi accenni di brezza cominciano a giungere dalla Marina, il drappo intorno al palco s’agita lievemente. L’accaloramento. La gente prende a tumultuare per le lungaggini del boia, i movimenti di don De Forti, che va da un condannato all’altro. “Masto Donà!” si grida “Volimmo accomincia’?”. “Jammo a fa’ ampresso! Le volimmo ammozza’ ‘sti capozzelle?”. Girano le prime battute spiritose, si ride. In fondo, qualcuno accenna a battere un tamburo, a intonare strofette. Si leva presto un coro: “Fatte cchiù accà, fatte cchiù allà:/ càvece ‘nfaccia a la libertà!”. La frenesia aumenta, cominciano gli urli isterici delle donne. Il boia avanza sul palco: chiede silenzio alzando un braccio. Il gioco insultante. “Popolo, po’!” grida, con voce stentorea. “La sai la novità?”. “Noooh!”, strillano quelli delle prime file, già ridendo. La domanda del boia passa di bocca in bocca, ondate di risa e di “Noooh!” spingono altre ondate, sino all’estremità della piazza. “E’ la primma vota c’aggio da ‘mpennere ‘no monsignore!”. Altra ilarità, movimento. “Non è overo” si grida. Il boia va a prendere monsignor Natali, lo spinge avanti. “Chisto è monsignore overo. E’…Era lo vescovo de Vico”. “E allora ‘mpennimmolo co’ tutti li sacramenti!” strilla uno spiritoso, le risate divengono scroscianti. “A servirvi, monsignò” dice, istrionescamente, il carnefice. Spinge indietro il vescovo, che è pallido, serio. Lieve fremere delle labbra indica che prega internamente. “Jammo, monzignò” esclama, sgarbato, il boia. Lo fa salire sullo scaletto, gli ficca il cappio intorno al collo. “Vai, vai!” urla, agitandosi, la folla. Il boia, a sorpresa, assesta un calcio allo scaletto. Monsignor Natali non ha neppure il tempo di finire il segno della croce che penzola dal cappio. Sangue cola dalla bocca aperta. “Viva lo re! Morte a li Giacobbe!”. Boati, canti, suoni, ribollono sulle teste. Il carnefice varia il programma.Chisto è nobile napolitano” grida, spingendo avanti Gennaro. “A chisto l’avimma ammozza’ la capa”. Guarda tesa, contratta. Fissa Gennaro che è dritto, fermo, anche se trema un poco. E’ molto pallido. Prima d’avvicinarsi al ceppo si volta, la guarda, le sorride. Gli manda un bacio, forte, con tutto il cuore. Gennaro mio, caro, caro amore anche tu, non soffrire, ti prego. Non soffrire troppo. Però non ha il coraggio di guardare la mannaia cadere. Meno male che il gruppo di serventi precipitatisi a gettar segatura impedisce di vedere. Scorge soltanto, dopo il boato “Viva lo re!”, tre o quattro che portano giù per la scaletta il corpo insanguinato di Gennaro. Come un ragazzo che ha avuto un incidente: tutto piegato da una parte, non si può capire che non ha più la testa. Tocca a lei. Il cappio accanto a quello da cui penzola il corpo pesante di Natali oscilla un poco. N’è come affascinata: guarda il grosso nodo della corda. Chissà se scortica la pelle. Il boia la spinge avanti. Sta per gridare qualche lazzo, don De Forti gli balza accanto, lo afferra per un braccio. “State zitto voi!” grida. Le prime file sentono, stupite. Forse pensano si tratti di un ordine, tacciono con aria premurosa, infantile. Passano parola. Un fruscio di “SSSSS, stateve zitte” si sparge per la piazza. Dopo un po’, della folla s’ode solamente il respiro. Lei resta sbalordita a guardarla. Il gran mare di teste. Abbassando gli occhi coglie, in dettaglio, visi d’uomini, donne, ragazzi. Per un istante una povera faccia segnata, quattro peli grigiastri su una testa: Graziella? Tutti mortificati, obbedienti all’ordine del prete. Come ragazzini. Di lì a poco, finita la festa, si sparpaglieranno in mille direzioni. Sulla sabbia della Marinella, verso Santa Lucia, a Toledo, per rosicchiare spassatiempi, inghiottire frutti di mare, sbocconcellare pollanchelle. O a guardare il passeggio, a cercarsi un posto per la notte. Le donne si rificcheranno nei bassi lerci, puzzolenti, a sfacchinare, sudare. Domani avranno già scordato quanto succede adesso: ora, però, si stanno divertendo, innocenti e crudeli come infanzia. Ma tutti siamo infanzia: questi qui, noi che moriamo, il re, la regina…Quante assurdità, me Deus! Servirà, poi, ricordare queste cose? Appaiono nuovamente impazienti, vede correre fremiti. Si stancano presto come, appunto, succede ai bambini, non possono sopportare impegni troppo a lungo. La fine. Alza gli occhi, verso il mare, che s’è fatto celeste tenero. Come il cielo, come il Vesuvio grande e indifferente. Un piccolo sospiro di rimpianto. Non osa chiedere: vorrebbe, però. Ritrovarli tutti nell’abbraccio di Dio sarebbe bello. Così, invece, che rimane? Niente. Il resto di niente. Vacilla. Mastro Donato, il boia, la sorregge, poi la spinge, con delicatezza. Le tiene una mano per farla salire sopra lo scaletto. Prima di dare il calcio la guarda, con occhio serio, un po’ aggrondato” (Striano, pp. 363-6).

Feste e ringraziamenti. “In questo stesso giorno i signori Orefici solennizzavano in S. Paolo la liberazione della città; le pie monache teatine celebravano messe e vespri e Te Deum in ringraziamento dell’entrata in Napoli delle armi reali, e nella chiesa di Regina Coeli si celebrava un’altra festa solenne con musica di Cimarosa, “e verso sera si cantava un solenne Te Deum coll’intervento dell’Eccell.mo cardinal Ruffo, Luogotenente del Regno e Liberator glorioso del medesimo”. Dovunque, in breve, vi furono solennità simili con enormi spese” (Spinazzola, in Gargano, 40).

 

Nota bibliografica

  • Colletta, “Storia del Reame di Napoli”, ESI, Napoli, 1969, v. II
  • Croce, “La Rivoluzione Napoletana del 1799”, Laterza, Bari, 1953
  • Cucciniello, “Politica e cultura negli Illuministi meridionali”, Principato, Milano, 1975
  • Carlo De Nicola, “Diario napoletano (1798-1825)”, Napoli, 1906, vol. I
  • Gargano, “Gennaro Serra di Cassano. Un portone chiuso in faccia al tiranno”, Magmata, 1999
  • Diomede Marinelli, “La caduta di Napoli”, La città del sole, Napoli, 1998
  • Serrao de’ Gregorj, “La repubblica partenopea e l’insurrezione calabrese”, Firenze, 1934, v. I
  • Striano, “Il resto di niente”, Rizzoli, Milano, 1998