Belli. La Chiesa. “La pantomina cristiana”. 30 marzo 1836

La “Commedia umana” di G. Gioacchino Belli. La Chiesa cattolica e la religione cristiana. 3- “La pantomina cristiana”

 

E’ molto interessante il dibattito critico che si è sviluppato a proposito dell’atteggiamento del Belli nei confronti della religione: qualcuno (Samonà) nega che si possa inquadrare il nostro poeta nell’ambito di un cattolicesimo riformatore e tenta di definirne la posizione come il manifestarsi di un dissidio profondo tra ragione e religione, pessimismo materialistico, momenti di vera e propria miscredenza e persistente fedeltà all’ideologia cattolica. Così, oscillando tra feroce sconsacrazione e fiduciosa familiarità, il suo popolano si adegua –tra effluvi di superstizione- al vario manifestarsi della divinità, a volte blasfemo e irridente, a volte timorato di Dio, persino baciapile. E la liturgia diventa uno spettacolo vertiginoso: grappoli di beghine che litaniano a gole spiegate, in un pastiche di latino maccheronico e dialetto locale, come avveniva in tutte le terre cattoliche. Vituperi incredibili, ianua coeli che diventa ianua culi, in un turpiloquio degno di Rabelais. “E’ scarsamente raccomandabile il tentare di trovare sempre fra tutti gli elementi contrastanti una sintesi superiore. Per esempio, tra il Belli che ha paura dell’inferno e quello che, anche sulla base di ben precise letture illuministiche, si prende gioco –non sempre garbatamente- dei dogmi cattolici o di alcune basilari concezioni religiose. Il nostro poeta era un temperamento fortemente conflittuale”.

Quello di Belli è un pensiero che non brucia progressivamente le sue tappe e non supera le posizioni di volta in volta acquisite (come è il caso, invece, di Leopardi e –perché no- anche di Manzoni), ma torna perpetuamente a riproporle immutate; è essenzialmente un pensiero non dialettico che accumula i dati dell’esperienza e della ragione senza percepirne la contraddittorietà. E così unisce il prudente conservatore quasi timoroso delle sue stesse idee e il poeta affascinato dalla forza barbarica della miseria, della rozzezza, della degradazione morale, della venalità e della lussuria che vedeva intorno a sé. E’ capace così di evocare ogni colore dei sentimenti umani: la paura, la crudeltà, la vendetta, la compassione, la sensualità, la pietà. Capace di smuovere emozioni tempestose e arcaiche. Gli ideali della riforma religiosa, pur se e quando ci sono, si immergono in un mondo senza scampo; ogni speranza, ogni tentativo di ribellione soffocano sotto le macerie di valori cattolici corrosi fino al crollo. In questa potenza di distruzione totale consiste la carica rivoluzionaria della sua poesia. Nella sua rappresentazione il poeta ritrova –anche senza volerlo- il suo moralismo, i suoi scrupoli, le sue preoccupazioni. Scrive il Sapegno che “il grido di rivolta porta con sé l’ombra di una condanna temuta, e la protesta e la satira hanno il sapore eccitante ed amaro del peccato, e la fantasia si immerge, con un coraggio disperato pieno di turbamento e di paura, in un gorgo di immagini empie, con una volontà acre e torbida di profanazione e di bestemmia. Dopo il 1846, dopo la morte di Gregorio XVI, il suo papa, Belli scriverà:” A papa Grigorio je volevo bene perché me dava er gusto de potenne dì male”.

Scrive un altro critico che “nella sostanza della sua poesia, pur così implacabile nel ritrarre una società in disfacimento, è un senso onnipresente della morte, dell’aldilà, ed un gusto del macabro che si riallacciano con evidenza a certi motivi che furono propri della letteratura barocca, a quella poesia lugubre e mortuaria che fu caratteristica della Controriforma. Dovunque nel Commedione, nei discorsi della plebe e nelle cerimonie religiose, è l’onnipresenza dei cadaveri, il senso della punizione eterna, lo sgomento dell’oltretomba, il ricorrere del tema funerario. Il poeta è fermo ai sotterranei sgomenti della plebe romana, scettica e godereccia, ridanciana eppure schiava dei suoi terrori”.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dello studio obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nei quali possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.

 

 

      La pantomina cristiana”                               30 marzo 1836

 

Quanno er popolo fa la cummuggnone

er curioso è lo stà in un cantoncino

esaminanno oggnuno da vicino

come asterna la propia divozzione.                                                4

 

Questo opre bocca e quello fa er bocchino,

chi sse scazzotta e chi spreme er limone,

uno arza la capoccia ar cornicione

e un antro s’inciammella e ffa un inchino.                                     8

 

E chi spalanca tutt’e dua le braccia:

chi ffa ttanti d’occhiacci e chi li serra:

chi aggriccia er naso e chi svorta la faccia.                                              11

 

Giaculatorie forte e ssotto-voce,

baci a la balaustra e bac’in terra,

succhi de fiato e sseggni de la croce.                                                           14

 

La pantomima cristiana

La pantomima, spiega il dizionario, è un’azione scenica muta, caratterizzata da una vistosa successione di gesti e di atteggiamenti, a carattere farsesco.

La cosa più curiosa e stimolante per me, quando il popolo fa la comunione, è lo stare in un angolo della chiesa esaminando da vicino i modi con i quali ognuno dei fedeli manifesta la propria devozione. Questo apre la bocca e quello la stringe in segno di contrizione (stringe la bocca “a cuore”), chi si percuote il petto con un cazzotto e chi intreccia le dita, stringendole poi nell’atto di pregare, uno alza la testa volgendo gli occhi al cornicione della navata (fingendo un’estasi mistica) e un altro si curva, si piega fino ad assumere la forma di una ciambella. Poi c’è chi spalanca entrambe le braccia: chi fa tanto d’occhi spalancandoli (sempre fingendo una devozione inesistente) e chi li chiude: chi arriccia il naso e chi volta la faccia. Si sentono giaculatorie (sono orazioni brevissime ripetute più volte) recitate a voce alta e bassa, baci alla balaustra dell’altare e baci sul pavimento, succiamenti di fiato e (finalmente) segni di croce.

 

Metro: sonetto (ABBA, BAAB, CDC, EDE).

 

Analisi. La struttura compositiva del testo e il tema sono analoghi al sonetto, La riliggione der tempo nostro, scritto solo alcuni mesi prima di questo. Anche qui la prima quartina serve da introduzione e annota il luogo (una chiesa), il contesto (una funzione sacra), i protagonisti (i fedeli che prendono la comunione durante la messa), l’osservatore-cronista (che si sceglie un angolo riservato dal quale guardare con minuzia di annotazioni la scena), la motivazione (“er curioso è lo stà”). Il poeta non esita, così, a dipingere del popolo le credenze, i pregiudizi, le superstizioni, l’untuosa ed esterna religiosità controriformista.

Muscetta ha rintracciato per questa pantomima degli spunti di origine letteraria nei “Dialoghi” di Pietro Aretino (II, III) e nell’atto I, scena VI del “Tartuffe” di Molière e propone poi di leggerlo “come un cartone che, nella misura consueta all’artista, si è gremito di figure variate su di uno stesso tema per improvvisa felicità dell’estro creativo”: una delle tante acqueforti belliane sul gusto di Callot o di Goya. Anche qui c’è un accentuato impianto teatrale (lo si nota del resto già dal titolo), tutto basato sulla registrazione fedele della mimica dei personaggi e sulla tecnica elencativa già altre volte felicemente usata (questo, quello, chi, chi, uno, un antro, vv. 5-8), (giaculatorie, baci, succhi, ssegni, vv. 12-14) e sull’anafora insistita (chi, chi, chi, vv. 9-11) . Negli ultimi due versi B. diviene sempre più irridente nel disegnare i tratti di questa teatralità religiosa. Il Vigolo commenta: “E’ insomma una vera pantomima, una specie di balletto della pratica esteriore, in cui la religione e la fede sono ridotte a una coreografia (Asor Rosa)”.

 

Nello stesso giorno, il 30 marzo 1836, Belli scrive un altro sonetto mirabile:

                                              

                                    “Le donne a messa”

 

Sposa, è bona la messa? – E’ bona, è bona.-

Be’, mettemose qua, sora Terresa… –

No, Tota; io vado via, che già l’ho intesa.-

Be’, lassateme dunque la corona.                                                     4

 

Sposa, fàteme sito. – Io me so ppresa

sto cantoncello pe la mi perzona. –

Dico fateve in là, sora minchiona:

che! Sete la padrona de la chiesa? –                                                 8

 

E in che danno ste spinte? – Io vojo er loco

pe ssentì messa. – Annàtevelo a ttrova. –

Presto, o mommò ve fo vedé un ber gioco. –                                             11

 

Oh guardate che bell’impertinenza!

Se sta in casa de Dio e manco giova.

Tutti vonno campà de propotenza.

 

Sposa (Belli annota che questo è il nome generico “che si dà a qualunque donna incognita a Roma”), è buona questa messa? – E’ buona, è buona.- Beh, mettiamoci qua, sora Teresa…-  No, Antonia, io vado via, l’ho già sentita.- Beh, lasciatemi dunque la corona. Sposa, fatemi posto.- Io ho preso questo cantuccio per me.- Oh, dico, fatevi più in là, “sora minchiona”: che! siete forse la padrona della chiesa?- E che voglion significare queste spinte?- Io voglio un posto per sentire la messa.- Andatevelo a trovare.- Datemelo presto, o se no or ora vi faccio vedere un bel gioco.- Oh, guardate che bell’impertinenza! Stiamo nella casa di Dio e questo neppure giova ad avere un po’ di pace. Tutti vogliono vivere facendo i prepotenti.

 

                                                           Gennaro Cucciniello