La “Commedia umana” di G. Gioacchino Belli. La Politica. “Li morti de Roma”

La “Commedia umana” di G. Gioacchino Belli. “La politica”. 1- “Li morti de Roma”.

 

Quale prefazione riporto una lucida analisi di R. Marchi: “Per Belli, a differenza del Porta, il romanesco impiegato nelle poesie è uno strumento letterariamente vergine, che per la prima volta (al di là della tradizione popolare degli stornelli, delle pasquinate, della poesia sguaiatamente comica) viene elevato a lingua della “verità”, veicolo privilegiato per i contenuti semplici, umili, spesso brutali di una classe sociale diseredata e vessata da secoli di governo papale. L’assenza di una codificazione letteraria (ma anche più semplicemente grammaticale) del romanesco consente allo scrittore di ottenere un effetto di particolare immediatezza espressiva. La lingua appare quindi una risorsa preziosa per testimoniare senza diaframmi culturali o ideologici un mondo emarginato e sconosciuto ai più. Il suo messaggio è pervaso di rinuncia, di polemica sfiducia nelle sorti dell’uomo, di ribellione senza sbocco possibile. Facendo parlare direttamente i personaggi (uomini di malaffare, donne sfortunate o perdute, prelati disinvolti e maneggioni, emarginati sociali) Belli, oltre a darci una complessa immagine di quel sottobosco sociale, esprime –dietro il velo di quelle voci acri o semplici- anche il senso forse più profondo della sua riflessione.

“La parola, così, esprime la risposta che non ammette repliche e annichilisce l’interlocutore, diventa lo strumento che mette a nudo l’ipocrisia di un comportamento o di una situazione, è l’arma con la quale il popolano dimostra di cogliere, pur nella sua rozzezza, la vera sostanza delle strutture politiche, sociali e ideologiche che lo circondano e lo opprimono. Una gran parte dei sonetti è dedicata alla rappresentazione dei molteplici personaggi che popolano le vie e le piazze di Roma: l’autore non li descrive ma li fa parlare; essi raccontano un fatto accaduto o dialogano tra loro, ma il più delle volte con un interlocutore muto che può essere la moglie, il figlio, l’amico o il compagno di osteria. Sfilano così sotto gli occhi di noi lettori vetturini e artigiani, accattoni e prostitute, mariti traditi e guappi di quartiere”.

La critica ha potuto parlare della sua opera come dell’espressione della crisi di una cultura borghese moderna in uno Stato, come quello della Chiesa, ancora privo di una vera classe borghese, diviso nella schematica opposizione tra nobiltà ecclesiastica e popolo diseredato. Nella poesia di Belli si trova quindi descritta una situazione sociale e culturale unica nella storia europea: il contrasto fra la Roma tesoro di antichità, meta di viaggio degli intellettuali di tutta Europa che vi cercavano le vestigia della grandezza di un tempo, la Roma “città sacra” e cuore della cristianità, e la Roma plebea, priva di strutture economiche e sociali moderne, profondamente provinciale, inconsapevolmente decadente. Nonostante Belli non esibisca il dolore sociale per pronunziare una impegnativa condanna politica nondimeno in questa commedia umana rappresentata ai suoi livelli più infimi si avverte la presenza della riflessione razionalista e pessimista dell’intellettuale formatosi soprattutto sulla scorta del pensiero illuminista. La stessa struttura dei suoi “Sonetti” ne testimonia l’emblematicità: l’autore non li aggregò infatti secondo un ordito narrativo e strutturale definito. La serie vive, in cadenza cronologica, della complessità e caoticità della vita che anima la Città Eterna. Fuori da qualsiasi costruzione preordinata, trionfano così il dialogo o il monologo, con cui gli stessi personaggi si rappresentano e si impongono sulla scena della vita (letteraria) per un breve momento, rivelando la felice attitudine del poeta alla resa scenica, teatrale degli episodi”, dimostrando la sua capacità e volontà di ubbidire al dettato dantesco: “forti cose a pensare mettere in versi” (Purgatorio, XXIX, 42).

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nei quali possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.

 

“Li morti de Roma”                                          23 gennaio 1833

 

Cuelli morti che ssò dde mezza tacca

fra ttanta ggente che sse va a ffà fotte,

vanno de ggiorno, cantanno a la stracca,

verzo la bbùscia che sse l’ha da ignotte.                             4

 

Cuell’antri, in cammio, c’hanno la patacca

de siggnori e dde fijji de miggnotte,

so ppiù cciovili, e ttiengheno la cacca

de fuggì er zole, e dde viaggià dde notte.                          8

 

Cc’è ppoi ‘na terza sorte de figura,

‘n’antra spesce de morti, che ccammina

senza moccoli e ccassa in zepportura.                                11

 

Cuesti semo noantri, Crementina,

che ccottivati a ppessce de frittura,

sce bbutteno a la mucchia de matina.                                 14

 

Quei morti che sono di media condizione sociale fra tutta la gente che va a farsi fottere, che muore, hanno il loro funerale di giorno, dal mezzodì al tramonto, con gli accompagnatori che cantano con voce stanca e senza impegno le orazioni funebri previste dal rito, e vanno verso la fossa che se li deve inghiottire. Quegli altri, invece, che hanno il titolo di signori e di figli di bagasce (le due categorie coincidono), sono più civili e hanno la vanità, la puzza sotto il naso di evitare la luce del sole e vogliono fare il loro viaggio dall’Ave Maria alle due ore di notte. C’è poi un terzo tipo di cerimonia funebre, un’altra specie di morti, che fanno il loro ultimo viaggio verso la sepoltura senza tante cerimonie, senza ceri, senza torce e senza cassa. Questi siamo noialtri, il popolo di Roma, Clementina cara, che, quotati a un prezzo bassissimo, come pesciolini da frittura, ci buttano nella fossa comune di mattina.

 

Metro: sonetto (ABAB-ABAB-CDC-DCD).

I primi undici versi. Non seguo questa volta la canonica divisione tra quartine e terzine perché il poeta enumera, in successione, la qualità dei tre tipi di funerale che attraversano ogni giorno Roma ed assegna ad ognuno di loro una strofa. Attraverso la voce del poeta parlano gli stessi popolani, i quali descrivono la loro vita, e la vita stessa della città, come essa appare ai loro occhi; addirittura sono i morti stessi, i morti poveri ed abbietti, a parlare e a compiere le varie azioni (semo noantri del v. 12 e sce butteno del v. 14). Essi hanno sì la consapevolezza di un’ingiustizia enorme che si consuma ogni giorno ai loro danni, così in vita come in morte, ma anche la convinzione che tutto è così da sempre, fermo e immutabile, senza rimedio, e ne parlano senza acredine. E che l’umanità è divisa ab aeterno in razze diverse, che non hanno e non avranno mai la possibilità di incontri, di rapporti. Se l’ingiustizia è il carattere eterno dell’umanità la storia è lo spazio concreto nel quale si svolgono le vicende che l’attualizzano. Anche nei funerali si celebra, e con quale ostentazione, la differenza sociale.

La rima in A (mezza tacca, cantanno a la stracca, hanno la patacca, tiengheno la cacca) inquadra con splendida coerenza l’albagia e i riti delle classi agiate. E la rima in B (va a fa fotte, se l’ha da ignotte, fiji de mignotte, viaggià de notte) completa col turpiloquio, con la battuta sarcastica e oscena la descrizione. Il popolano coglie e irride, con un linguaggio aggressivo e ostentatamente plebeo, le differenze tra i morti. Nel v. 3 (in quel cantanno a la stracca) si  avverte la lentezza bolsa, senza impegno, di questo mortorio: il canto biascicato degli accompagnatori è attribuito allo stesso morto. Nel v. 5, con quel “hanno la patacca” il poeta riesce con semplicità ad avvilire la presunzione dei signori, ma l’aggiunta, l’insulto di fijji de mignotte, completa in modo splendido il ritratto. I suoi popolani si esprimono sempre così quando alludono al ceto dei padroni, e tuttavia sono disposti ogni volta all’ossequio, all’obbedienza. E’ da rimarcare la ripetizione, con gli aggettivi (quelli, v. 1 e 5; n’antra, v. 10) e i pronomi (antri, v. 5 e noantri, v. 12), che sottolinea, pur nella diversità delle pompe e dei riti sociali, il comune terribile destino di tutti gli esseri umani: lo scomparire nel nulla.

L’ultima terzina. Nel sonetto non prevale la protesta sociale, c’è invece la constatazione amara dell’inevitabilità e della crudezza della morte, di quella bocca spalancata che alla fine inghiottirà tutti. Perciò la voce è priva di sdegno, piana, propria di chi spiega un dato di fatto, un elemento irrimediabile del costume, della cronaca; direi addirittura che è cinica, con un’ombra di divertimento, che si manifesta nella battuta sarcastica e oscena, nel turpiloquio. Questa introduzione di un coro plebeo, o –come si è scritto- di uno “storico popolano”, permette al Belli di far proporre da una voce collettiva una denuncia così forte ma con una voce tranquilla quasi, monotona, con cadenze larghe di litania, di chi racconta rassegnato, senza sdegno e soprattutto senza speranza di mutamento. Nella città santa di Roma le ingiustizie terrene prevalgono sempre e ridicolizzano quasi ogni speranza ultraterrena. Quando però la riflessione si volge a quei morti di nessun valore, costretti a “camminare” con le proprie gambe –soli e senza compagnia- fino alla morte mattutina e anonima nella mucchia della fossa comune, l’irrisione ostentata si incrina in metafore e toni più malinconici. Non c’è dignità e bellezza nella morte: il narratore osserva con pietà lo spettacolo della fossa comune perché si identifica con i poveracci e con la sorte comune di tutti gli uomini. E’ ridicola la pretesa di conservare nelle esequie le distinzioni sociali, il poeta è convinto di questo, perciò sembra che non abbia paura di confondersi con i plebei, di far causa comune con loro. Il “pesce di frittura” è dato in pasto, con asciutta tragicità, a una morte cupamente concepita solo nella sua dimensione di finitezza corporea, che “sse l’ha da iggnotte”, senza speranza alcuna di redenzione. La fossa non protegge le vecchie ossa con i capelli appiccicati, la polvere triste degli antenati. Ricordo un’iscrizione su una tomba bogomila vecchia di sette secoli: “Non girate questa lapide, perché al chiaro di luna le nostre ossa discutono su chi avesse ragione e chi no. E la morte ci ha resi ancora più estranei l’uno all’altro”.

Annota la critica che il suo mondo plebeo non è solo un mondo scanzonato, scurrile, profanatore e scandalizzatore, mondo che vive ai margini della ragione e degli ordinamenti civili. E’ anche un mondo reale e profondamente tragico, nel quale anche la morte non sfugge alla sua furia dissacratrice. Lasciare la parola agli oppressi ed umiliati, come in questo caso, significa negare ogni speranza di progresso, ogni fiducia nell’evoluzione positiva della società umana. E’ un paradosso? Non per Belli: egli è da accostare agli altri due grandi scrittori “negativi” e pessimisti della letteratura italiana ottocentesca, Leopardi e Verga.

Gennaro  Cucciniello