Non date la colpa ai social
Provare a fare chiarezza quando si parla di “social media” è come cercare di trovare un ago in un pagliaio. Non ci può essere chiarezza quando un social media ospita le idee, i pensieri, gli sfoghi, le esultanze, le rabbie e gli amori di miliardi di persone diverse. Miliardi. E in Italia diversi milioni, divisi tra Whatsapp (33,6 milioni di utenti attivi), Facebook (29 milioni), Instagram (27,3 milioni), Messenger (18,9 milioni), Telegram (17,4 milioni), Tik Tok (14 milioni), Pinterest (10 milioni), X (9,8 milioni) e via via tutti gli altri. Di che parliamo, dunque, quando citiamo con estrema, troppa, leggerezza il popolo del web, la protesta social, il bullismo digitale? Di qualche decina di migliaia di persone, quando il caso diventa davvero social. Spesso molti di meno.
Ma anche se si trattasse di un milione di utenti singoli e attivi di Facebook su 29 milioni, tanto per fare un esempio, sarebbe un ventinovesimo degli utenti del social network. Una cifra che andrebbe definita come largamente minoritaria. A dargli rilevanza con frasi del genere il web in rivolta, o la protesta social siamo noi, i giornalisti, che invece di derubricare molte di queste rivolte o proteste come “non notizie”, siamo i primi a dargli spazio, visibilità, amplificazione. Il popolo del web esiste solo nelle redazioni dei giornali, delle radio, delle televisioni, che danno peso alle idiozie di gruppi di esaltati, fanatici, repressi, che usano i social network per aggredire, insultare, attaccare gli altri. Una pallida minoranza, certamente molto pericolosa, ma che come tale andrebbe trattata. Così come gli ultras allo stadio non rappresentano i milioni di persone che seguono allegramente il calcio, allo stesso modo chi utilizza le tastiere dei propri personal media come strumento per insultare gli altri non rappresenta alcun popolo del web. La stragrande maggioranza, quella che usa i social come forma di contatto con amici, parenti, colleghi, o con persone sconosciute con le quali condivide passioni o manie, sfortunatamente non conta, non fa notizia, non è il popolo del web per il mondo dell’informazione.
Si dice, ed è vero, che sui social, per come operano gli algoritmi che ci fanno vedere solo determinati messaggi e non altri, si creano delle camere d’eco che si autoalimentano, che sono chiuse all’esterno, e producono una realtà distorta perché mettono insieme soltanto persone che la pensano allo stesso modo. E’ vero, i social offrono uno strumento facile, con l’aiuto degli algoritmi, per trovare chi la pensa come te. Più o meno quello che accade a chi compra un quotidiano che ha una linea politica ben definita, a chi segue con passione una squadra di calcio, a chi è fan di un cantante, a chi segue la moda, a chi guarda solo Rai Tre o Rete 4, a chi vede Report, a chi legge tutti i libri di Harry Potter, o ama Vasco Rossi, e via discorrendo. Pensate che i fan club siano una camera d’eco che produce una realtà distorta? Credete che gli iscritti a un partito autoconfermino la loro idea in un circolo chiuso e vizioso? No, sono strumenti di aggregazione, normali, come il Club della pipa o l’Anpi, solo che attualmente queste comunità vivono nei social network. Il fatto che siano composte da gente che la pensa allo stesso modo non è interessante, mentre lo è il fatto che queste persone oggi, con lo strumento dei social, possano trovarsi e creare comunità. Sì, ho scritto creare comunità, perché è questo quello che accade veramente. Non sono comunità virtuali come troppo spesso si dice, non sono luoghi isolati e vuoti, ma comunità vive e partecipate, nelle quali la gente si incontra non fisicamente ma si incontra. Comunità anche piccolissime, come quella dei miei compagni di classe attiva su Whatsapp, eravamo in contatto anche prima dell’avvento dei social, ma oggi siamo in contatto, e con grande piacere, quotidianamente. E in questo modo, positivo, importante, comunitario, vengono usati i social network nella stragrande maggioranza dei casi.
Vogliamo dire, una volta e per tutte, che il male non sono i social ma chi li usa? Anche nel caso dei social network. Che in una infinità di occasioni sono invece uno strumento di socialità, di democrazia, di amicizia, di affetto, ed è per questo che godono del loro incredibile successo. Ci sono storture? Certamente. Ci sono gli odiatori da tastiera? Sicuramente. Ma che la calunnia sia “un venticello, un’auretta assai gentile, che insensibile, sottile, leggermente, dolcemente, incomincia a sussurrar. Piano piano, terra terra, sottovoce, sibilando, va scorrendo, va ronzando; nelle orecchie della gente s’introduce destramente e le teste ed i cervelli fa stordire e fa gonfiar”, lo musicava Rossini ai primi dell’Ottocento, e i social network dell’epoca, ovvero i mercati, la strada, funzionavano allo stesso modo senza internet e smartphone. La differenza è che prima la chiacchiera da bar restava al bar, oggi ha una platea più ampia esponenzialmente, ma soprattutto gode dell’amplificazione dei grandi media, che trasformano tanti, troppi venticelli in notizie lette da milioni di persone.
Un’ultima notazione: gli smartphone vengono da molti, troppi, considerati come degli strumenti attraverso i quali le persone, i giovani in particolare, si isolano, macchine che spingono alla solitudine, compensata dalla frenesia della comunicazione social. E’ difficile negare che sia così, soprattutto quando in una qualsiasi sera al ristorante vediamo tutti con la forchetta in una mano e il cellulare nell’altra. Ma la stessa solitudine è in milioni di case di persone sole che passano il loro tempo davanti alla televisione, come spettatori passivi. E molti di loro, per fortuna, sono diventati meno soli con gli smartphone e i social. E va anche detta un’altra cosa: i giovani di oggi, che passano gran parte del oro tempo con il cellulare in mano, sono parte della prima generazione nella storia, dalla notte dei tempi, che cresce con l’intero scibile umano in tasca. Non sappiamo questo cosa possa produrre, ma certamente produrrà qualcosa di nuovo e di buono, perché l’ignoranza non ha mai prodotto altro che buio, violenza, terrore, arretramento.
Ernesto Assante
Questo saggio e ponderato articolo è stato pubblicato ne “La Repubblica” del 19 gennaio 2024, alla pagina 25.