Belli. Sonetti, “L’amore de li morti”, 19 settembre 1835

Belli. Sonetti. “L’amore de li morti”, 19 settembre 1835

 

La Roma raccontata dal Belli è la Roma dei sei papi che regnarono nei settantadue anni (1791-1863) nei quali egli visse, anni di enormi agitazioni, di grandi rivoluzioni politiche, di un frenetico andirivieni tra occupazioni militari e restaurazioni, in una città sordida e spopolata, abitata da plebi –con quelle di Napoli- tra le più incolte e ciniche che ci fossero allora in Italia. Il poeta ritrae questa città che si lascia vivere con indolenza mentre si diffonde la consapevolezza che lo Stato della Chiesa è diventato ormai un anacronismo.

Già in un sonetto del 1832 (“Li punti d’oro”) Belli aveva scritto: “Cusì viengheno a dì li giacubini,/ ar gran sommo pontefice Grigorio:/”che te fai de li stati papalini,/ dove la vita tua pare un mortorio?”. Non fu così facile, comunque, liberarsi di questi “stati papalini”. Ancora nel 1862 trecento vescovi reclamarono che il potere temporale dei papi era una necessità voluta direttamente dalla Provvidenza divina (un parallelo blasfemo con il centro-destra italiano che, nel 2011, solennemente ha votato in Parlamento –per difendere la crapula di papi-Berlusconi- che la prostituta minorenne Ruby era nipote di Mubarak?). Affermazioni impegnative per questi vescovi, un anno dopo la proclamazione dell’Unità d’Italia.

Non si dimentichi che papa Gregorio XVI, che tanto piaceva a Belli, era il papa che nell’enciclica “Mirari vos” del 1832 aveva scritto tra l’altro: “E’ un vaneggiamento che ognuno debba avere libertà di coscienza, a questo nefasto errore conduce quell’inutile libertà d’opinione che imperversa ovunque”. “La sessantina di sonetti dedicati a questo papa rendono bene, nell’insieme, l’idea che il popolo romano poteva avere del papa-re: da una parte la fede cristiana, anche se spesso rappresentata dal poeta come superstizione, fa rimanere salda la componente religiosa della figura del papa, come successore di Pietro e Cristo in terra; ma i romani, proprio per la vicinanza fisica con l’uomo che ad un certo punto diventa papa e la diretta conoscenza dei meccanismi per nulla spirituali che lo portano all’elezione al pontificato, lo giudicano anche come individuo e lo temono come governante che impone le gabelle e commina le condanne, come capo della fatiscente società del putrido Stato pontificio”.

Alla fine, quando al soglio di Pietro salirà Pio IX – che si stava acquistando fama di “liberale”-, Belli –in un sonetto del gennaio 1847, scriverà un testo con un attacco grandiosamente reazionario: “No, sor Pio, pe’ smorzà le turbolenze,/ questo qui non è er modo e la magnera./ Voi, padre santo, nun n’avete cera,/ da fa’ er papa sarvanno le apparenze./ La sapeva Grigorio l’arte vera / de risponne da Papa a l’insolenze./ Vonno pane? Mannateje indurgenze;/ vonno posti? Impiegateli in galera”.  

Nell’Introduzione alla sua opera Belli aveva spiegato i motivi che lo avevano spinto a scegliere per i suoi testi la forma del sonetto: egli voleva costruire tanti quadretti distinti, soprattutto per raggiungere due scopi: il lettore doveva accostarsi alla raccolta senza nessun impegno di dover continuare nella lettura; il poeta doveva usare una forma in sé conclusa in un veloce giro di versi, perché la realtà descritta si concentra tutta in brevi episodi, in azioni e battute di spirito, tanto più efficaci in quanto si esauriscono nel momento in cui sono colti.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio nei quali possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992; Belli, “Tutti i sonetti”, a cura di P. Gibellini e collaboratori, Einaudi, quattro volumi, 2019.

 

 

L’amore de li morti                             19 settembre 1835

 

A sto paese tutti li penzieri,

Tutte le lòro carità cristiane

So ppe li morti; e appena more un cane

Je se smoveno tutti li braghieri.                                       4

 

E cataletti, e moccoli, e incenzieri,

E asperge, e uffizzi, e musiche, e campane,

E messe, e catafalchi, e bonemane,

E indulgenze, e ppitaffi, e cimiteri!…                               8

 

E intanto pe li vivi, poveretti,

Gabbelle, ghijottine, passaporti,

Mano-reggie, galerre e cavalletti.                                   11

 

E li vivi poi-poi, boni o cattivi,

Sò quarche cosa mejo de li morti:

Nun fuss’antro pe questo che ssò vivi.                             14

 

Metro: sonetto (ABBA, ABBA, CDC, EDE).

 

In questo nostro paese tutti i pensieri, tutte le loro carità cristiane (opere di misericordia e di assistenza) sono per i morti; e appena muore un cane tutti diventano smaniosi e si mettono subito all’opera. Ecco allora i sostegni delle bare, e le candele, e gli incensieri, e gli aspersori con l’acqua santa, e i riti funebri, e le musiche, e le campane, e le messe, e i catafalchi, e le mance, e le indulgenze, e gli epitaffi, e i cimiteri (da poco era stato inaugurato il cimitero del Verano)… E nel frattempo per i vivi, poveretti!, tasse, ghigliottine, passaporti per il controllo degli spostamenti, i procedimenti sommari contro i debitori morosi, carcere e frustate sul culo. E i vivi alla fine dei conti, buoni o cattivi, valgono qualche cosa meglio dei morti: non foss’altro per il fatto che sono vivi.

 

Le quartine.

Le prime due strofe sono dedicate ai morti e alla vera, ossessiva preoccupazione per la fine della vita che dominava tutto il territorio dello Stato pontificio, regno di un clero sclerotizzato e passatista. Stilisticamente è il polisindeto, con la ripetizione delle particelle congiuntive nella costruzione coordinata dell’accumulazione dei dati, a caratterizzare il ritmo incalzante dei funerali e a sottolineare i dettagli delle cerimonie funebri: nel finale è la parola cimiteri ad accogliere onnicomprensivamente la parata funeraria.

Belli ci propone Roma e tutto lo Stato pontificio come una città rivelatrice, come quell’inferno in terra dove l’umano si va progressivamente riconfigurando. La città eterna, così, può essere, è, un luogo critico attraverso il quale provare a capire le cose, l’epicentro di un discorso che muove dalla dimensione locale e contingente per trascenderla dando forma a qualcosa che abbia come proprio oggetto non più lo spazio e il tempo bensì l’umanità tout court.

Le terzine.

Sono le strofe dei vivi, poveretti. E per questi derelitti c’è, stilisticamente, l’asindeto –con la soppressione delle congiunzioni- a rendere l’idea, incalzante e oppressiva, della censura, delle proibizioni, della repressione violenta. Nel finale il poeta si abbandona alla constatazione ironicamente amara che i vivi, tutto sommato, valgono qualcosa in più dei defunti: respirano ancora e possono sopportare. E Belli racconta tutto questo in un passaggio continuo tra la precisione di un racconto realistico –o possibile- e la vaghezza di una condizione che assomiglia a quella dei sogni.

 

Nello stesso giorno Belli si diverte nel commentare i pettegolezzi femminili in città:

 

                                      Le lode tra donne

 

Anime sante! come s’è stregata

Quela Bibbiana! E me se dà quer tono.

Che schifenza! Nun pare, co pperdono,

Una coda de gatto scorticata?                                          4

 

Già, nun è stata mai gnente de bono:

L’ho vista in vita sua sempre sguajata:

Ha avuta sempre una gran brutta occhiata:

Puro, prima… Ma adesso? te la dono.                             8

 

Magra ppiù d’una tèmpora, pellosa,

Co ‘na bocca d’abbisso, d’un colore

Tra la ruta, la cennere e la rosa…                                   11

 

E sse dà ar monno chi ce fa l’amore?

E sse trova er bon omo che la sposa?

Ce vò un stòmmico proprio da dottore.                          14

 

                                      I commenti tra donne

Anime sante! Come si è sciupata quella Bibbiana! E si dà pure quelle arie. Che schifezza! Non sembra, chiedo perdono, una coda scorticata di gatto? Già, non è mai stata una niente di buono: io l’ho vista sempre sguaiata nella sua vita: ha avuto sempre una gran brutta espressione nella faccia: pur tuttavia, prima… Ma adesso? Te la regalo. Magra più di un digiuno, con la pelle cascante, con la bocca scavata, d’un colore tra la ruta (un’erba medicinale), la cenere e la rosa… E si trova al mondo uno che fa l’amore con lei? E si trova un buon uomo che se la sposa? Ci vuole proprio uno stomaco da medico.

 

                                                        Gennaro  Cucciniello