Belli, “La golaccia”. Stato Pontificio.

La “Commedia umana” di G. Gioacchino Belli. Lo Stato pontificio.  “La golaccia”                             27 ottobre 1834

La Roma raccontata dal Belli è la Roma dei sei papi che regnarono nei settantadue anni (1791-1863) nei quali egli visse, anni di enormi agitazioni, di grandi rivoluzioni politiche, di un frenetico andirivieni tra occupazioni militari e restaurazioni, in una città sordida e spopolata, abitata da plebi –con quelle di Napoli- tra le più incolte e ciniche che ci fossero allora in Italia. Il poeta ritrae questa città che si lascia vivere con indolenza mentre si diffonde la consapevolezza che lo Stato della Chiesa è diventato ormai un anacronismo.
Già in un sonetto del 1832 (“Li punti d’oro”) Belli scrive: “Cusì viengheno a dì li giacubini,/ ar gran sommo pontefice Grigorio:/”che te fai de li stati papalini,/ dove la vita tua pare un mortorio?”. Non fu così facile, comunque, liberarsi di questi “stati papalini”. Ancora nel 1862 trecento vescovi reclamarono che il potere temporale dei papi era una necessità voluta direttamente dalla Provvidenza divina (un parallelo blasfemo con il centro-destra italiano che, nel 2011, solennemente ha votato in Parlamento –per difendere la crapula di papi-Berlusconi- che la prostituta minorenne Ruby era nipote di Mubarak?). Affermazioni impegnative per questi vescovi, un anno dopo la proclamazione dell’Unità d’Italia.
Non si dimentichi che papa Gregorio XVI, che tanto piaceva a Belli, era il papa che nell’enciclica “Mirari vos” del 1832 aveva scritto tra l’altro: “E’ un vaneggiamento che ognuno debba avere libertà di coscienza, a questo nefasto errore conduce quell’inutile libertà d’opinione che imperversa ovunque”. “La sessantina di sonetti dedicati a questo papa rendono bene, nell’insieme, l’idea che il popolo romano poteva avere del papa-re: da una parte la fede cristiana, anche se spesso rappresentata dal poeta come superstizione, fa rimanere salda la componente religiosa della figura del papa, come successore di Pietro e Cristo in terra; ma i romani, proprio per la vicinanza fisica con l’uomo che ad un certo punto diventa papa e la diretta conoscenza dei meccanismi per nulla spirituali che lo portano all’elezione al pontificato, lo giudicano anche come individuo e lo temono come governante che impone le gabelle e commina le condanne, come capo della fatiscente società del putrido Stato pontificio”.
Alla fine, quando al soglio di Pietro salirà Pio IX – che si stava acquistando fama di “liberale”-, Belli –in un sonetto del gennaio 1847, scriverà un testo con un attacco grandiosamente reazionario: “No, sor Pio, pe’ smorzà le turbolenze,/ questo qui non è er modo e la magnera./ Voi, padre santo, nun n’avete cera,/ da fa’ er papa sarvanno le apparenze./ La sapeva Grigorio l’arte vera / de risponne da Papa a l’insolenze./ Vonno pane? Mannateje indurgenze;/ vonno posti? Impiegateli in galera”.
Nell’Introduzione alla sua opera Belli aveva spiegato i motivi che lo avevano spinto a scegliere per i suoi testi la forma del sonetto: egli voleva costruire tanti quadretti distinti, soprattutto per raggiungere due scopi: il lettore doveva accostarsi alla raccolta senza nessun impegno di dover continuare nella lettura; il poeta doveva usare una forma in sé conclusa in un veloce giro di versi, perché la realtà descritta si concentra tutta in brevi episodi, in azioni e battute di spirito, tanto più efficaci in quanto si esauriscono nel momento in cui sono colti.
Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio nei quali possono crescere le parole.
Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.
La golaccia”                                            27 ottobre 1834
 
Quann’io vedo la gente de sto monno,
che più ammucchia tesori e ppiù s’ingrassa,
più ha ffame de ricchezze, e vò una cassa
compaggna ar mare, che nun abbi fonno,                                        4
 
dico: “oh mandra de cechi, ammassa, ammassa,
sturba li giorni tui, pèrdece er zonno,
trafica, impiccia: eppoi? Viè signor Nonno
cor farcione e tte stronca la matassa”.                                              8
 
La morte sta anniscosta in ne l’orloggi;
e gnisuno pò dì: “domani ancora
sentirò batte er mezzogiorno d’oggi”.                                               11
 
Cosa fa er pellegrino poverello
ne l’intraprenne un viaggio de quarch’ora?
Porta un pezzo de pane, e abbasta quello.                                       14
 
                        “L’avidità”
Quando io vedo la gente di questo mondo che, quanto più ammucchia tesori e più s’ingrassa, tanto più ha fame di ricchezze e vuole una cassa uguale al mare, che non abbia fondo, io dico: “O branco di ciechi, ammassa, ammassa, sconvolgi le tue giornate, perdici il sonno, traffica, datti da fare: e poi? Arriva il signor Vecchio (è il Tempo) col falcione e vanifica tutto ciò che hai accumulato, tutti i tuoi progetti, i tuoi disegni”. La morte sta nascosta negli orologi; e nessuno può dire: “domani ancora sentirò suonare il mezzogiorno di oggi”. Cosa fa il pellegrino di povera condizione nell’intraprendere un viaggio di qualche ora? Porta con sé un poco di pane e quello basta.
Le quartine. L’avidità spinge tutti gli uomini, i quali non pensano che prima o poi dovranno lasciare tutto per morire. C’è l’istinto infinito e disperato verso l’accumulo delle ricchezze di cui ci si può liberare solo con una visione del mondo non egoistica. Il testo è intessuto di modi di dire e di espressioni dialettali ma è anche un continuo rimando ad altri testi, letterari e religiosi.
Nelle prime due strofe c’è un crescendo bellissimo che culmina nella interrogazione semplice e parlata, a mezzo del v. 7, “eppoi?”, la più adatta a troncare quell’affannosa enumerazione progressiva di attività e a introdurre l’immagine grandiosa e grottesca della morte con la sua falce gigantesca. E più della rima in A (monno-fonno) è quella in B (s’ingrassa-cassa-ammassa ammassa-matassa), con le assonanze (compagna, mandra), con le parole con raddoppi di consonante (ammucchia-ricchezze-abbi-Nonno), il rincorrersi convulso dei verbi d’azione (ammassa-sturba-pèrdece-trafica-impiccia) a rendere con efficacia e potenza evocativa l’affannarsi agitato degli esseri umani.
Le terzine. Il v. 9, figurazione isolata e bizzarra, la morte sta anniscosta in ne l’orloggi, rende meravigliosamente, con rara suggestione visiva e psicologica, il concetto di un Tempo eterno complice della Morte, che infatti si nasconde nella casa del suo alleato (l’immagine era presente nella poesia barocca del ‘600). La mente va agli orologi dei campanili barocchi romani, alle chimeriche architetture borrominiane in cui veramente aleggia il senso della morte. Nella seconda terzina il paragone tra il pellegrino poverello e l’uomo che percorre la vita è un topos della letteratura religiosa; il Vigolo segnala come antecedente diretto una lettera di San Girolamo.
Una settimana prima, il 20 ottobre 1834, Belli ha scritto un sonetto intitolato “La bellezza”. Leggiamolo insieme.
Che gran dono de Dio ch’è la bellezza!
Sopra de li quadrini hai da tenella:
pe via che la ricchezza nun dà quella,
e co quella s’acquista la ricchezza.                                                     4
 
Una chiesa, una vacca, una zitella,
si è brutta nun ze guarda e sse disprezza:
e Dio stesso, ch’è un pozzo de saviezza,
la madre che ppijò la vorze bella.                                                       8
 
La bellezza nun trova porte chiuse:
tutti je fanno l’occhi dorci; e ttutti
vedeno er torto in lei doppo le scuse.                                                 11
 
Guardàmo li gattini, amico caro.
Li ppiù belli s’alleveno: e li brutti?
E li poveri brutti ar monnezzaro.
 
Con distacco freddo il poeta descrive il gesto di chi getta via le povere bestiole senza alcuna compassione.
                                                                       Gennaro Cucciniello