Belli. Sonetti. “Che cristiani”, 25 novembre 1831

Belli. Sonetti. “Che cristiani”, 25/11/1831

 

E’ molto interessante il dibattito critico che si è sviluppato a proposito dell’atteggiamento del Belli nei confronti della religione: qualcuno (Samonà) nega che si possa inquadrare il nostro poeta nell’ambito di un cattolicesimo riformatore e tenta di definirne la posizione come il manifestarsi di un dissidio profondo tra ragione e religione, pessimismo materialistico, momenti di vera e propria miscredenza e persistente fedeltà all’ideologia cattolica. Così, oscillando tra feroce sconsacrazione e fiduciosa familiarità, il suo popolano si adegua –tra effluvi di superstizione- al vario manifestarsi della divinità, a volte blasfemo e irridente, a volte timorato di Dio, persino baciapile. E la liturgia diventa uno spettacolo vertiginoso: grappoli di beghine che litaniano a gole spiegate, in un pastiche di latino maccheronico e dialetto locale, come avveniva in tutte le terre cattoliche. Vituperi incredibili, ianua coeli che diventa ianua culi, in un turpiloquio degno di Rabelais. “E’ scarsamente raccomandabile il tentare di trovare sempre fra tutti gli elementi contrastanti una sintesi superiore. Per esempio, tra il Belli che ha paura dell’inferno e quello che, anche sulla base di ben precise letture illuministiche, si prende gioco –non sempre garbatamente- dei dogmi cattolici o di alcune basilari concezioni religiose. Il nostro poeta era un temperamento fortemente conflittuale”.

Quello di Belli è un pensiero che non brucia progressivamente le sue tappe e non supera le posizioni di volta in volta acquisite (come è il caso, invece, di Leopardi e –perché no- anche di Manzoni), ma torna perpetuamente a riproporle immutate; è essenzialmente un pensiero non dialettico che accumula i dati dell’esperienza e della ragione senza percepirne la contraddittorietà. E così unisce il prudente conservatore quasi timoroso delle sue stesse idee e il poeta affascinato dalla forza barbarica della miseria, della rozzezza, della degradazione morale, della venalità e della lussuria che vedeva intorno a sé. E’ capace così di evocare ogni colore dei sentimenti umani: la paura, la crudeltà, la vendetta, la compassione, la sensualità, la pietà. Capace di smuovere emozioni tempestose e arcaiche. Gli ideali della riforma religiosa, pur se e quando ci sono, si immergono in un mondo senza scampo; ogni speranza, ogni tentativo di ribellione soffocano sotto le macerie di valori cattolici corrosi fino al crollo. In questa potenza di distruzione totale consiste la carica rivoluzionaria della sua poesia. Nella sua rappresentazione il poeta ritrova –anche senza volerlo- il suo moralismo, i suoi scrupoli, le sue preoccupazioni. Scrive il Sapegno che “il grido di rivolta porta con sé l’ombra di una condanna temuta, e la protesta e la satira hanno il sapore eccitante ed amaro del peccato, e la fantasia si immerge, con un coraggio disperato pieno di turbamento e di paura, in un gorgo di immagini empie, con una volontà acre e torbida di profanazione e di bestemmia. Dopo il 1846, dopo la morte di Gregorio XVI, il suo papa, Belli scriverà:” A papa Grigorio je volevo bene perché me dava er gusto de potenne dì male”.

Scrive un altro critico che “nella sostanza della sua poesia, pur così implacabile nel ritrarre una società in disfacimento, è un senso onnipresente della morte, dell’aldilà, ed un gusto del macabro che si riallacciano con evidenza a certi motivi che furono propri della letteratura barocca, a quella poesia lugubre e mortuaria che fu caratteristica della Controriforma. Dovunque nel Commedione, nei discorsi della plebe e nelle cerimonie religiose, è l’onnipresenza dei cadaveri, il senso della punizione eterna, lo sgomento dell’oltretomba, il ricorrere del tema funerario. Il poeta è fermo ai sotterranei sgomenti della plebe romana, scettica e godereccia, ridanciana eppure schiava dei suoi terrori”.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri, tanto da riecheggiare la stringatezza sapienziale che fu dei Padri del Deserto. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nei quali possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992. Belli, I Sonetti, edizione critica a cura di P. Gibellini, L. Felici, E. Ripari, Einaudi, Torino, 2018.

 

 

             Che cristiani           25 novembre 1831

 

‘Gna sentì messa e arispettà er governo

Chi vò ssarvasse l’anima, Donizzio,

Si no viè Cristo ar giorno der giudizzio

E ce buggera a ttutti in sempiterno.                                 4

 

Metti, cumpare mio, metti giudizzio,

Caso te puzzi er foco de l’inferno,

Ché, mettémo la sfanghi in ne l’inverno,

Ar tornà de l’istate è un pricipizzio.                                 8

 

Povero Gesucristo! dar zu’ canto

S’è ammascherato sin da vino e ppane:

Be’, dov’è un cazzo che sse fa ppiù ssanto?                     11

 

Le donne so, per dio, tutte puttane,

L’ommini ladri: e ttutto er monno intanto

De Cristo se ne fa strenghe de cane.                                  14

 

Metro: sonetto (ABBA, BAAB, CDC, DCD).

 

Chi vuole salvarsi l’anima, caro Dionisio, bisogna che senta messa e rispetti il governo dei preti, se no viene Cristo nel giorno del Giudizio e ci frega tutti per l’eternità. Metti, compare mio, metti giudizio, se hai timore del fuoco dell’inferno, perché, poniamo che te la cavi nell’inverno (quando la mortalità a Roma era bassa), quando torna l’estate è un precipizio di morti (per via del caldo e della malaria). Povero Gesù Cristo! dal canto suo si è trasformato fin nel vino e nel pane (per essere più vicino agli esseri umani): Be’, perché nessuno si fa più santo? Le donne, per dio, sono tutte puttane, gli uomini ladri: e tutto il mondo di Cristo si fa stracci per i letti dei cani.

 

Le quartine.

In una piazzetta di Roma due compari chiacchierano tra loro. Il dialogo non è dialettico, non c’è confronto di tesi e di opinioni. Domina il pensiero di uno dei due, quello che sembra più autorevole o il più informato. Esprime una visione conservatrice della vita e del mondo, nella quale Dio è vendicativo e persecutore (rivelatore è quel “ce buggera a tutti in sempiterno”, v. 4), ma anche alleato dei governi di questa terra. All’uomo, suddito e impotente, non resta che ubbidire. Interessante è la ripetizione, ai vv. 3 e 5, della parola-concetto “giudizzio”; e l’inversione di “inferno-inverno” ai vv. 6-7.

Le terzine.

E’ inclemente la descrizione della totale malvagità umana, una cattiveria universale che in fondo giustifica l’atteggiamento di questo Dio terribile e punitivo. Il popolano cattolico-romano sembra prendersi gioco del sacramento dell’eucaristia, commiserando Gesù che, sebbene si sia persino ammascherato da pane e vino, è ridotto a stracci da cane. Scrive acutamente un critico: “Questo autoproclamato catechista assomma tratti mentali e linguistici opposti: una religiosità conformistica e adesione allo spirito evangelico, approssimazione dottrinale e precisa ripresa di motivi topici della meditazione religiosa, locuzioni da sagrestano e modi irriverenti, dissacratori”. Alla fine lo stesso Belli, in una nota, si dissocerà dall’iperbole finale, “oggni donna è puttana, e l’ommini una manica de ladri”, scrivendo con ironia che è “espressione degli eccessi delle menti popolari, non già una sua propria opinione, troppo falsa e ingiuriosa a’ buoni cittadini di Roma”.

 

Nella produzione del Belli questo 25 novembre 1831 è un giorno memorabile: infatti nelle stesse 24 ore il poeta scrive lo splendido “Er giorno der Giudizzio” e l’altrettanto famoso La fin der monno”. Il giorno dopo, il 26, Belli scrisse:

 

                                      Er peccato d’Adamo

 

E’ ttanto chiaro, e ste testacce storte

Nu la sanno capì, che da quer pomo

Che in barba nostra se strozzò er prim’omo

Pe degreto de Dio nacque la morte;                                  4

 

E che lui de l’inferno uprì le porte,

E o granne, o ciuco, o birbo, o galantomo,

Ce fece riggistrà ttutti in un tomo,

Ce fece distinà ttutt’una sorte!                                            8

 

Perché pperché! se sturino l’orecchie,

Vienghino a ffàlla loro un’antra lègge

Sti correttori de le stampe vecchie.                                   11

 

Perché pperché! ber dì da giacobbino!

Er libbro der perché, chi lo vò legge

Sta a covà ssott’ar culo de Pasquino.                                14

 

E’ tanto chiaro, e queste teste storte dei giacobini non sanno capirla, che da quella mela (il frutto dell’albero proibito di cui parla la Genesi,3, 1-13) che il primo uomo ingoiò avidamente a nostro danno, per decisione di Dio nacque la morte. E che questo Adamo aprì le porte dell’inferno, e o adulto , o piccolo, o birbante, o galantuomo, ci fece registrare tutti in un libro, ci fece destinare tutti a un destino! Perché perché! Aprano le orecchie, vengano loro a farla un’altra legge questi censori importuni dei libri vecchi. Perché perché! Un bel dire da giacobino! Il libro del perché, per chi lo vuole leggere, sta sotto il culo di Pasquino (così è chiamata una statua antica mutilata di gambe e braccia, creduta di Patroclo, che –addossata ora al Palazzo Braschi- dà il proprio nome a una piazza di Roma, nei pressi di piazza Navona).

Anche in questo sonetto Belli non scherza: con modi popolareschi nega il libero arbitrio dell’uomo (Adamo col suo peccato ce fesce distinà ttutt’una sorte!, v. 8), non contempla il sacrificio redentore di Gesù, mandato da Dio sulla terra proprio per rimediare ai guai provocati da Adamo ed Eva mangiando il frutto proibito. Però il popolano, nel suo odio anti-giacobino, è lestissimo nel respingere le idee dei liberali materialisti, testacce storte che nu la sanno capì (vv. 1-2), che ripetono increduli sempre perché pperché (vv. 9 e 12), fino allo sberleffo conclusivo: vadano a cercare la risposta ner libbro der perché ssott’ar culo de Pasquino.

Una nota finale: Belli non si ferma qui. In questo stesso giorno scrive. “Er mortorio de Leone duodecimosiconno”; il 27, “La Reverenna cammera apopretica”; il 28, “La bbona famijja”; il 29, “Er presepio”. Una settimana davvero esplosiva!

 

                                                                  Gennaro Cucciniello