Belli. Sonetti. “Er Giuveddì e Venardì Ssanto”, 16 aprile1835

Belli. Sonetti. “Er Giuveddì e Venardì Ssanto”, 16 aprile1835

 

E’ molto interessante il dibattito critico che si è sviluppato a proposito dell’atteggiamento del Belli nei confronti della religione: qualcuno (Samonà) nega che si possa inquadrare il nostro poeta nell’ambito di un cattolicesimo riformatore e tenta di definirne la posizione come il manifestarsi di un dissidio profondo tra ragione e religione, pessimismo materialistico, momenti di vera e propria miscredenza e persistente fedeltà all’ideologia cattolica. Così, oscillando tra feroce sconsacrazione e fiduciosa familiarità, il suo popolano si adegua –tra effluvi di superstizione- al vario manifestarsi della divinità, a volte blasfemo e irridente, a volte timorato di Dio, persino baciapile. E la liturgia diventa uno spettacolo vertiginoso: grappoli di beghine che litaniano a gole spiegate, in un pastiche di latino maccheronico e dialetto locale, come avveniva in tutte le terre cattoliche. Vituperi incredibili, ianua coeli che diventa ianua culi, in un turpiloquio degno di Rabelais. “E’ scarsamente raccomandabile il tentare di trovare sempre fra tutti gli elementi contrastanti una sintesi superiore. Per esempio, tra il Belli che ha paura dell’inferno e quello che, anche sulla base di ben precise letture illuministiche, si prende gioco –non sempre garbatamente- dei dogmi cattolici o di alcune basilari concezioni religiose. Il nostro poeta era un temperamento fortemente conflittuale”.

Quello di Belli è un pensiero che non brucia progressivamente le sue tappe e non supera le posizioni di volta in volta acquisite (come è il caso, invece, di Leopardi e –perché no- anche di Manzoni), ma torna perpetuamente a riproporle immutate; è essenzialmente un pensiero non dialettico che accumula i dati dell’esperienza e della ragione senza percepirne la contraddittorietà. E così unisce il prudente conservatore quasi timoroso delle sue stesse idee e il poeta affascinato dalla forza barbarica della miseria, della rozzezza, della degradazione morale, della venalità e della lussuria che vedeva intorno a sé. E’ capace così di evocare ogni colore dei sentimenti umani: la paura, la crudeltà, la vendetta, la compassione, la sensualità, la pietà. Capace di smuovere emozioni tempestose e arcaiche. Gli ideali della riforma religiosa, pur se e quando ci sono, si immergono in un mondo senza scampo; ogni speranza, ogni tentativo di ribellione soffocano sotto le macerie di valori cattolici corrosi fino al crollo. In questa potenza di distruzione totale consiste la carica rivoluzionaria della sua poesia. Nella sua rappresentazione il poeta ritrova –anche senza volerlo- il suo moralismo, i suoi scrupoli, le sue preoccupazioni. Scrive il Sapegno che “il grido di rivolta porta con sé l’ombra di una condanna temuta, e la protesta e la satira hanno il sapore eccitante ed amaro del peccato, e la fantasia si immerge, con un coraggio disperato pieno di turbamento e di paura, in un gorgo di immagini empie, con una volontà acre e torbida di profanazione e di bestemmia. Dopo il 1846, dopo la morte di Gregorio XVI, il suo papa, Belli scriverà:” A papa Grigorio je volevo bene perché me dava er gusto de potenne dì male”.

Scrive un altro critico che “nella sostanza della sua poesia, pur così implacabile nel ritrarre una società in disfacimento, è un senso onnipresente della morte, dell’aldilà, ed un gusto del macabro che si riallacciano con evidenza a certi motivi che furono propri della letteratura barocca, a quella poesia lugubre e mortuaria che fu caratteristica della Controriforma. Dovunque nel Commedione, nei discorsi della plebe e nelle cerimonie religiose, è l’onnipresenza dei cadaveri, il senso della punizione eterna, lo sgomento dell’oltretomba, il ricorrere del tema funerario. Il poeta è fermo ai sotterranei sgomenti della plebe romana, scettica e godereccia, ridanciana eppure schiava dei suoi terrori”.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri, tanto da riecheggiare la stringatezza sapienziale che fu dei Padri del Deserto. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nei quali possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.

 

                                                                      

Er Giuveddì e Venardì Ssanto         16 aprile 1835

 

Sò ppoche le funzione papaline:

Nun basteno la cena e la lavanna.

Pe ffà le cose com’Iddio comanna

Pare c’ar Papa tra ste du’ matine                                    4

 

Bisoggnerebbe métteje una canna

In mano e in testa una coron de spine:

Poi fraggellallo a la colonna, e infine

Processallo e spidije la condanna.                                   8

 

Dice: “Ma a Roma nun ce sta Carvario”.

Si conzisteno qui ttutti li mali

S’inarbera la croce a Monte-Mario.                                11

 

E lassù oggn’anno, a li tempi pasquali,

Ce s’averebbe da inchiodà un Vicario

De Cristo, e accanto a lui du’ Cardinali.                          14

 

Metro: sonetto (ABBA, BAAB, CDC, DCD).

 

                           

Il Giovedì e il Venerdì Santo

 

Sono poche le funzioni papaline: non bastano la memoria dell’Ultima Cena e la Lavanda dei piedi (che si fanno nel Giovedì Santo). Per fare le cose in regola sembra che al Papa, tra le mattine del Giovedì e del Sabato Santo, bisognerebbe mettergli una canna in mano e una corona di spine in testa: poi flagellarlo alla colonna e infine sottoporlo a processo e spedirgli la condanna. Qualcuno obbietta: “Ma a Roma non ci sta il Calvario”. Se stanno qui tutti i problemi, s’innalza la croce a Monte-Mario. E lassù, ogni anno, nei tempi di Pasqua, ci si dovrebbe inchiodare un Vicario di Cristo e, accanto a lui, due Cardinali.

 

Le quartine.

L’esordio è fulminante: per il nostro popolano, sempre abbagliato dai riti e dalle scenografie alle quali assisteva nelle basiliche romane (cito soltanto gli spettacoli di “Le cappelle papale” e di “Er miserere de la settimana santa”), durante l’anno “sò ppoche le funzione papaline” (v. 1): ne vorrebbe tante di più. Siamo nei tempi pasquali e allora il repertorio nel quale pescare è vasto. Nel Giovedì Santo c’è la commemorazione della Cena eucaristica e anche la Lavanda che Gesù fa dei piedi degli apostoli, puntualmente ripetuta dal papa nella basilica di San Pietro. E per il Venerdì, giorno della morte del Signore, il popolano pensa che ugualmente si possa e si debba teatralizzare quanto è riportato nei Vangeli. E allora si potrebbe configurare il cortile della fortezza Antonia a Gerusalemme, prendere il papa (il Vicario di Cristo), mettergli una canna in mano e una corona di spine in testa, poi flagellarlo ben bene e infine processarlo e leggergli la condanna a morte (“Allora i soldati del governatore, tratto Gesù nel pretorio, radunarono attorno a lui tutta la coorte. E spogliatolo, gli misero addosso un mano scarlatto; e intrecciata una corona di spine, gliela misero sul capo, e una canna nella man destra; e inginocchiatisi dinanzi a lui lo beffavano, dicendo: Salve, re dei Giudei! E sputatogli addosso, presero la canna, e gli percotevano il capo. E dopo averlo schernito, lo spogliarono del manto, e lo rivestirono delle sue vesti; poi lo menaron via per crocifiggerlo”, Matteo, 27, 27-31; Marco, 15, 16-20, quasi con le stesse parole; e anche Giovanni, 19, 1-3). Quante volte il nostro popolano avrà sentito questa storia drammatica ripetuta con enfasi e commozione dai pulpiti delle chiese. Perché non riviverla allora tutti gli anni?

Le terzine.

Il gioco ora si fa serio. A Roma non c’è il Calvario (“un luogo detto Golgota, che vuol dire: luogo del Teschio”) ma il popolano non demorde: c’è Monte Mario. Innalziamo lì la croce e su questa croce “ce s’averebbe da inchiodà un Vicario” (v. 13) e –a fargli da corona- due cardinali: “Allora furon con lui crocifissi due ladroni, uno a destra e l’altro a sinistra” (Matteo, 27, 38). E’ ancora teatro, rito, funzione religiosa rievocativa? Bestemmia oscena solo pensata?

Cos’è questa Roma, una città plumbea, senza misericordia né perdono? Una città ostile, dura e crudele, una città caotica, senza grazia, in un tempo allucinato? Una città marcia e imprevedibile, dove niente è mai del tutto vero o falso, vigile o ipnotico, dove tutto è discontinuo, dissolto, in un’atmosfera corrosiva, soffocante. Ma la scrittura del nostro poeta è acuminata, geometrica, corsara.

 

Nei primi giorni di questo mese d’aprile Belli scrive questo sonetto, senza data. Il testo allude al concistoro tenuto nell’aprile del 1835, esattamente il 5, e i nomi dei cardinali furono pubblicati il 6. Poiché qui si parla dei tormenti papali prima della nomina, se ne deduce che…

 

                                      Nun c’è strada de mezzo

 

Er Papa dorme da una man de notte

Nov’ora appena, e ss’arza, poverello,

Cor culo pe l’inzù, co certe fotte

Da tajalle a grostini cor cortello.                                    4

 

Perché sto par de fiji de miggnotte

Ch’è in zur procinto de daje er cappello,

L’ha scuperti ppiù ladri che marmotte:

E mo sta ttra l’ancudine e ‘r martello.                                      8

 

Si li lassa in ner posto c’hanno adesso,

Va a risico che l’antra prelatura

Specchiannose in sti dua facci l’istesso.                           11

 

Si ppoi l’incardinala, ha gran pavura

C’un giorno uno de loro entri ar possesso

De la Chiesa, e la manni in raschiatura.                         14

 

                                      Non c’è via di mezzo

Da cinque giorni il Papa dorme appena nove ore a notte, e si alza, poverello, di brutto e strano umore, con certe sensazioni di noia e di inquietudine che col coltello si potrebbero tagliarle come crostini; perché questo paia di figli di puttana, che è sul punto di nominarli cardinali, li ha scoperti più ladri che marmotte: e adesso sta tra l’incudine e il martello. Se li lascia nel posto che hanno adesso (cioè se non li nomina), rischia che gli altri prelati, prendendo esempio da questi due, facciano lo stesso. Se invece li crea cardinali ha una gran paura che un giorno uno di loro diventi papa (entrando in possesso della Chiesa) e la mandi in rovina.

 

                                                        Gennaro Cucciniello