Giambattista Tiepolo, “L’ultimo dei giganti”

G.B. Tiepolo, l’ultimo dei giganti

Con lui si chiudeva in Italia una tradizione di grandi iniziata da Giotto. A 250 anni dalla morte, ritratto di un pittore misterioso e “anacronistico”, che non piaceva a Longhi, ma stregava Proust.

 

Ne “Il Venerdì di Repubblica” del 27 marzo 2020, alle pp. 94-97, è pubblicato questo articolo di Tomaso Montanari. La stessa sera del 27 marzo, su Rai Cinque, doveva andare in onda (è andato?) “Gli abissi di Tiepolo”, documentario scritto e condotto dallo stesso Tomaso Montanari: l’anticipazione della serie sull’artista in quattro episodi (“Tiepolo: i diritti della fantasia”), la cui produzione è stata interrotta dalla diffusione dell’epidemia di coronavirus.

                                                                  Gennaro Cucciniello

 

“Sogni, e favole io fingo… Ah, che non sol quelle, ch’io canto, o scrivo,/ favole son; ma quanto temo, o spero,/ tutto è menzogna, e delirando io vivo!/ Sogno della mia vita è il corso intero”. Tutto è sogno, la realtà stessa lo è; e l’arte, in un’inversione fatale, rischia di essere l’unica cosa vera. La morale di questo celebre sonetto di Pietro Metastasio (1732) è molto simile a quella del suo contemporaneo veneziano Giovan Battista Tiepolo. Un’arte ineffabile, indecifrabile, ambigua quella di Tiepolo: come l’espressione delle sue sante, in cui “si legge chiaramente il dolore… misto con piacere”, come notava il suo amico Francesco Algarotti, gran conoscitore di pitture.

Tiepolo, l’insincero celebratore di cause perse: quelle dei potenti –effimeri, ma scandalosamente ricchi- di una Venezia e di un’Italia ormai in caduta libera, alla vigilia della Rivoluzione francese che spazzerà via l’antico regime e la sua arte. Ma anche l’ultimo dei grandissimi pittori italiani, nome degno di chiudere la sfilata di giganti che allinea Giotto, Masaccio, Piero della Francesca, Leonardo, Michelangelo, Raffaello, Lotto, Tiziano, Caravaggio…; ma certo molto meno di costoro presente con la sua opera (forse al massimo con il suo nome) nella coscienza degli italiani di oggi. Perché? Forse perché mentre tutti questi sommi maestri, da Giotto a Caravaggio, restituirono un’idea completa della realtà –ci dettero, cioè, il loro giudizio sul mondo reale, ricreandolo in corpi vivi e tangibili- Tiepolo scelse invece di trasfigurare la realtà in sogno, e in favola. “Tiepolo –ha scritto Giorgio Manganelli- non è solo un bugiardo, è un falsario; l’inventore di un mondo coerente e inabitabile, seducente e irraggiungibile”.

Nel 1951 Roberto Longhi –il maggior storico dell’arte del Novecento italiano, il grande scopritore di Caravaggio- scrisse un dialogo immaginario proprio tra Caravaggio e Tiepolo, due artisti agli antipodi stilistici. La finzione è che Caravaggio accolga il collega nell’aldilà, e lo interroghi sul mondo e sulla pittura: ed è ben presto evidente come Caravaggio –e con lui Longhi- non ami per nulla Tiepolo. “Hai creduto a quel che facevi, lasciavi qualche traccia di verità almeno nel tuo dipingere?”, chiede a Tiepolo un Caravaggio sprezzante e inquisitorio. E’ la pittura della realtà che giudica la frivolezza delle nuvole del Settecento. E ancora, incalzandolo: “Voi che fate: pitture o macchine teatrali?”. Ma qua la risposta che Longhi mette in Bocca a Tiepolo è memorabile. “Talvolta me lo sono chiesto anche io, ma ho avuto torto se, assistendo alle parate dei miei nobili protettori, ho concluso che il meglio fosse assecondarli, e dipingere il mondo come se fosse tutto un teatro?”. Roberto Calasso –in un libro splendido, e davvero importante, del 2006: “Rosa Tiepolo”– ha scritto che “occultata dietro il tono mondano, la replica di Tiepolo a Caravaggio è metafisica, perché dipingere il mondo come se fosse tutto un teatro non è certo una semplice prescrizione della buona società: semmai è una via regale del pensiero”. Non che, con questo, in Tiepolo ci sia la volontà di denunciare alcunché: dal suo primo lavoro, a Massanzago (Padova), all’ultimo capolavoro italiano della sua maturità, la volta del salone di Villa Pisani a Stra (Padova), passando per l’incanto del colore dei suoi affreschi di Udine e per la leggerezza danzante delle sale di Palazzo Labia a Venezia, che vivono della stessa luce delle acque del Canal Grande, la sua intera opera è una tessitura di cristallo, apparentemente senza ombre.

Nel suo “Mecenati e pittori”, fondamentale studio sui rapporti tra arte e società nell’età barocca, Francis Haskell ha scritto “la finzione che Venezia fosse ancora una grande potenza era tenuta in piedi con ogni artificio di cui disponesse lo Stato veneziano. “Nettuno offre doni a Venezia” di Tiepolo in Palazzo Ducale è la perfetta illustrazione di questa situazione: per quanto dipinto verso il 1745-48, in un momento in cui i commerci veneziani davano solo preoccupazioni, l’opera esprime il più assoluto ottimismo. L’ispiratore di questo, come di tanti altri dipinti settecenteschi, era Paolo Veronese, colui che nel ‘500 aveva meglio raffigurato Venezia trionfante. Ma nonostante il ripiegamento sulle glorie passate, il dipinto di Tiepolo non appare in alcun modo nostalgico”. Forse perché la felicità di Tiepolo nel dipingere era –questa sì- assolutamente sincera: il blu elettrico del cielo, il frusciare dei solenni abiti di Venezia, la luce fredda, come di un’alba d’inverno. “Un Veronese dopo un acquazzone”, per usare ancora le parole di Roberto Longhi. Dunque, dove cercare lo sfuggente Tiepolo?

“Se Tiepolo non fu mai preso pienamente sul serio, si direbbe quasi che lo volesse”, ha scritto ancora Calasso: difficile accertarlo, perché Tiepolo –e anche questo non ha giovato alla sua popolarità- è una specie di anti-Caravaggio anche nella vita. Non sappiamo praticamente nulla di lui come persona, e per quel poco che sappiamo appare sereno: senza drammi né contrasti, senza lotta col demone dell’arte, senza aneddoti rivelatori, contrarietà, drammi o anche solo incidenti. Senza desideri, se si potesse vivere senza desideri. “La personalità dell’uomo Tiepolo” hanno scritto Svetlana Alpers e Michael Baxandall nel libro più importante dedicato al nostro artista negli ultimi anni, “ci ha totalmente eluso”. C’è tuttavia una frase rivelatrice, consegnata dal Tiepolo stesso alla Nuova Veneta Gazzetta il 20 marzo 1762. La notizia c’era tutta: il massimo artista italiano del suo tempo stava partendo per la Spagna, dove avrebbe dipinto sul soffitto della Sala del Trono la gloria di Carlo III. Sarebbe stato un viaggio senza ritorno: perché Giovan Battista morì a Madrid il 27 marzo 1770, esattamente 250 anni fa. Quella dichiarazione alla stampa è in perfetto stile Tiepolo, perché l’apparenza inganna, anzi l’apparenza è tutto: “li pittori devono procurare di riuscire nelle opere grandi, cioè in quelle che possono piacere ai signori nobili e ricchi: perché questi fanno la fortuna dei professori”. Una banalità: o, peggio, una servile dichiarazione di adesione al potere e al denaro. Ma –con le ultime parole- anche un ribaltamento, uno svelamento, un lampo di luce sul proscenio: sono i ricchi che servono ai professori (cioè agli artisti) e non il contrario. Con un’inversione tra il fine e il mezzo, l’arte è ormai un fine: l’arte come unica verità, come unica realtà. Tra le sue nuvole colorate, tra le sue donne diafane abbracciate a vecchi grifagni, tra i suoi sorrisi enigmatici (che ispirarono un grande disegnatore dei nostri giorni come Hugo Pratt), tra i suoi orientali inverosimili, tra le sue stoffe a strisce, Tiepolo a modo suo fa la rivoluzione: l’arte, con lui, è ormai solo arte.

Ha scritto Adriano Mariuz –uno studioso a cui dobbiamo molto della nostra possibilità di amare l’arte di quest’ultimo gigante della nostra storia dell’arte- che Tiepolo ha dipinto “un mondo: un mondo in cui trovano posto mitologia, allegoria, religione: che proprio allora venivano attaccate dal pensiero critico del razionalismo dominante. Egli si è avvalso di quel repertorio ormai frusto per affermare, come per sfida, i diritti della fantasia: per celebrare i poteri dell’arte, che nella sua sfera accoglie quanto sta per essere travolto dai tempi, rifiutato dalla storia. Dalla grande deriva del Barocco Tiepolo ha suscitato la visione luminosa di uno spazio ritrovato, consentendoci di contemplare gli dèi come se fossero ancora tra noi”. Uno spazio ritrovato: proprio come il tempo inseguito da Marcel Proust, che tanto amava il color rosa Tiepolo. Ma non tutto è roseo in Tiepolo, non ci sono solo gli dèi: le sue nerissime incisioni parlano di un mondo sotterraneo e misterioso, pieno di demoni che siamo ancora ben lontani dal riuscire a comprendere fino in fondo. Perché, ormai l’abbiamo imparato, “tutto è menzogna, e delirando io vivo!/ Sogno della mia vita è il corso intero”.

 

                                                        Tomaso Montanari