Belli. Sonetti. “Er matarazzaro”

Belli. Lavoro. “Er matarazzaro”, 19-3-34

 

In tutta la vita del nostro poeta c’è una costante: l’egualitarismo. Da vecchio, quando -leggendo la “Civiltà cattolica” si vedeva sommerso da violente polemiche contro “Il Manifesto” di Carlo Marx- egli scrisse una poesia in italiano intitolata “Il comunismo”. Vi si rifletteva il suo rifiuto dell’esistenza di “due generi umani”. Quel rifiuto che aveva espresso in versi eloquenti nel sonetto “Er ferraro”: “Quer chi tanto e chi niente è ‘na commedia / che m’addanno ogni vorta che ce penzo” . Le sue sono luci spietate e facce vere, come faceva Caravaggio.

Nella poesia dialettale in genere si cerca la macchietta, l’espressione sboccata, la battuta spiritosa, ma per leggere il Belli –diceva Giorgio Vigolo- bisognerebbe mettere sul viso la maschera tragica. Insigni studiosi ormai ne hanno valutato la statura, mettendone in rilievo lo spessore umano, l’intuito psicologico, la sapienza compositiva, l’immediatezza espressiva, il retroterra culturale, l’impegno morale. La sua non è l’opera sguaiata di chi si compiace di essere indecente, quanto lo sfogo di cruda sincerità di un uomo che per troppi anni aveva mangiato il pane di un regime soffocante, aveva fatto parte d’una classe culturale sorpassata, aveva respirato l’aria di un mondo chiuso torpido retrivo: le aveva servite ma –nello stesso tempo- aveva registrato le iniquità dei potenti, l’ignoranza, la superstizione, l’abbandono in cui era lasciata la plebe. Al contrario, nei suoi testi Belli racconta e sottolinea il lavoro che curva la schiena, piega le ginocchia, imbratta le vesti, il lavoro crudo e nudo che si fa con le mani, la piaga della fatica ingrata, dello sfruttamento umiliante. Quanti pesi sulle spalle, quanti piedi nelle zolle, quanti utensili manuali e semplici. Al popolo romano il poeta, nella sua “Introduzione”, riconosce “un dialogo inciso, pronto ed energico, un metodo di esporre vibrato ed efficace”, e questo lui puntualmente registra. Per lui il romanesco, assunto con rigoroso riguardo alla sua natura fonetica, lessicale e sintattica, diviene una via diretta di penetrazione nella cruda verità della vita popolare. Il suo romanesco ha davvero la concisione lapidaria della lingua latina.

“Nell’Introduzione alla sua opera Belli scrisse le motivazioni che avevano determinato la scelta della forma sonetto: egli volle costruire un insieme di distinti quadretti, soprattutto per due finalità; la prima era quella di permettere al lettore di accostarsi alla raccolta senza nessun impegno di continuità nella lettura, la seconda era quella di utilizzare una forma poetica in sé conclusa in un rapido giro di versi, perché la realtà che egli descriveva si concentrava tutta in episodi brevi, in battute di spirito e in azioni, tanto più efficaci in quanto si esaurivano nel momento in cui erano colti. Perciò non c’è la narrazione ma la rappresentazione del popolo di Roma; l’illustrazione dei vari temi è il frutto dell’accostamento, con la tecnica del mosaico, di tanti pezzi di realtà trasfusi nella poesia. D’altra parte la volontà di rappresentazione realistica portava alla scelta del sonetto, in quanto le qualità espressive dei popolani che Belli rende protagonisti non si fondavano certo sulle capacità argomentative. La forza del romanesco sta nell’immediatezza e nella violenza di un linguaggio che si basa, più che sulla frase, sulla singola persona”.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nei quali possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.

 

 

Er matarazzaro          19 marzo 1834

 

Ciamancàvio mo voi, sori cazzacci,

Co sti vostri segreti e ciafrujetti

Pe distrugge le cìmice e l’inzetti

Drent’a li matarazzi e a li pajacci.                         4

 

Pe voantri saranno animalacci,

Ma ppe chi campa cor rifà li letti

Le cìmice pe lui so animaletti

Che Dio l’accreschi e che bon pro je facci.             8

 

Nun è né er primo caso né er ziconno,

Che un letto pe du’ vorte in un’annata

S’è avuto d’arifà da cap’a ffonno.                            11

 

Pe questo la bon’anima de tata

Rifacenno li letti co mi’ nonno,

Ce lassava una cìmicia agguattata.                        14

 

Metro: sonetto (ABBA, ABBA, CDC, DCD)

 

                                               Il materassaio

 

Ora mancavate voi, signori cazzacci, con questi vostri segreti e imbroglietti per distruggere le cimici e gli insetti dentro i materassi e i pagliericci. Per voi altri saranno animalacci, ma per chi campa la vita rifacendo i letti per lui le cimici sono animaletti che Dio li faccia crescere e con buona fortuna. Non è né il primo caso né il secondo che un letto per due volte in un anno si è dovuto rifare da cima a fondo. Per questo la buon’anima di mio padre, lavorando ai letti con mio nonno, aveva imparato a lasciarci una cimice nascosta.

 

Le quartine.

Tra il 18 e il 22 marzo, quindi in soli cinque giorni, Belli scrive ben undici sonetti dedicati ai lavoratori. Si comincia con Li beccamorti, poi Le canterine (le cantanti dell’Opera), Er boja, Li muratori, questo Matarazzaro, L’ombrellari, Er carzolaro, Lo stracciarolo, Er servito de piazza, La serva der cerusico, Er fico fresco der vignarolo. Si comincia con una specie di improperio: è il materassaio che impreca a voce alta contro quelli che –in nome del progresso- si danno da fare con mille invenzioni per bonificare pagliericci e materassi. E’ interessante proprio il binomio usato: le cimici saranno animalacci (v. 5) per le donne di casa, ma sono graziosi animaletti (v. 7) per i nostri lavoratori. E le rime aiutano l’antinomia, con i “sori cazzacci” che usano mirabolanti “segreti e ciafrujetti”.

Le terzine.

Preso dalla foga del discorso e dalla voglia di esaltare la sua perizia, il nostro oratore rivela pari pari i sotterfugi a cui è costretto –allenato dalla buona tradizione di famiglia- per avere occasioni di lavoro e di guadagno per una misera sopravvivenza. Ed è meravigliosa la visione di quella “cìmicia agguattata” (v. 14) nel miserabile pagliericcio.

Qui risalta la sovrana monotonia d’una voce sola, quella ventriloqua del popolano scettico, cinico, fedele però  alla verità sfacciata della vita. Il tono del racconto sembra che discenda dalla tradizione della novella, con un personaggio e una sua storia particolare, meglio se beffarda. C’è un gran gusto teatrale, che presuppone una platea attenta che ascolta e partecipa.

 

Continuando a raccontarci, come scrivevo, le vicende di lavoratori artigiani, che spesso abitavano nella stessa via o contrada, Belli, sempre il 19 marzo 1834, scrive quest’altro sonetto:

 

                                               L’ombrellari

 

Che belli tempi, sì! quanti so cari!

More de fonghi tu e li tempi belli.

Cristo! nun piove mai! Dilli fraggelli

Sti mesi asciutti, e nun li dì gennari.                               4

 

Se discorre che noi in tre ffratelli

Che ttenemo bottega d’ombrellari,

Drent’a du’ mesi qui a li Baullari

Nun z’è aggiustato c’ott’o nove ombrelli.                       8

 

Sto novembre, ar vedé l’arco-baleno

Je lo disse a mi’ moje tal e quale:

“Accidenti, Mitirda! ecco er zereno!”                              11

 

E m’arispose lei: “Brutto seggnale!

Ché ppe noi ce vorebbe armén’arméno

Rivienissi er diluvio universale”.                                               14

 

Che bei tempi, sì! Quanto sono cari! Possano morire avvelenati dai funghi tu e questi tempi belli. Cristo! Non piove mai. Chiamali flagelli questi mesi senza pioggia, e non chiamarli gennai. Si tratta che noi siamo tre fratelli che abbiamo bottega di ombrellai e in due mesi, qui ai Baullari (una contrada allora quasi esclusivamente popolata da fabbricatori e racconciatori di bauli, valigie ed ombrelli), non abbiamo, in tre, aggiustato che otto o nove ombrelli. Questo novembre, nel vedere l’arcobaleno, io lo dissi a mia moglie: “Accidenti, Matilde! Ecco il sereno”. E lei mi rispose: “Brutto segnale! Per noi ci vorrebbe che almeno almeno rivenisse il diluvio universale”.

                                                        Gennaro  Cucciniello