Belli. Sonetti. “La nascita”, 17 gennaio 1832

La “Commedia umana” di G. G. Belli. L’inferno romano.

“La nascita”, 17 gennaio 1832.

 

I popolani romani non hanno arte alcuna: non di oratoria, non di poetica: come niuna plebe n’ebbe mai. Tutto esce spontaneo dalla natura loro, viva sempre ed energica perché lasciata libera nello sviluppo di qualità non fattizie (sincere, non artificiali). Direi delle loro idee ed abitudini, direi del parlar loro ciò che può vedersi delle fisionomie. Perché tanto queste diverse nel volgo di una città da quelle degl’individui di ordini superiori? Perché non frenati i muscoli del volto all’immobilità comandata della civile educazione, si lasciano alla contrazione della passione che domina e dell’affetto che stimola; e prendono quindi un diverso sviluppo, corrispondente per solito alla natura dello spirito che que’ corpi informa e determina. Così i volti divengono specchio dell’anima (…) E dove con tal corredo di colori nativi io giunga a dipingere la morale, la civile e la religiosa vita del nostro popolo di Roma, avrò, credo, offerto un quadro di genere (vita comune, vita familiare, folklore) non al tutto spregevole da chi non guardi le cose attraverso la lente del pregiudizio (…) Il mio è un volume da prendersi e lasciarsi, come si fa de’ sollazzi, senza bisogno di progressivo riordinamento d’idee”.

Sono chiare queste indicazioni che Belli aveva scritto nell’Introduzione alla sua opera sterminata (più di 2250 sonetti). La Roma papale, nella sua decrepitezza ma anche per la sua centralità universale, era diventata la sede, eterna, di tutti i mali e le ingiustizie del mondo, un luogo escluso dalla storia e dalle sue illusioni di progresso (le leopardiane magnifiche sorti e progressive). “C’è il senso cupo di un destino immodificabile che”, scrive Asor Rosa, “accomuna nella stessa visione pessimistica del mondo servi e signori, prelati e popolo. Solo un riferimento a un altro suddito marginale dello Stato pontificio, Leopardi, potrebbe far capire la qualità e l’altezza della poesia belliana”.

La plebe di Roma: lavandaie sempre partorienti, poverelli, gatti a pigione, gabelle, ciechi di mestiere, impiegati inetti, pellegrini “sfamati a cazzimperio e miserere”, artigiani facili alle coltellate, concubine tra gli angioloni delle chiese con le trombe in bocca. Erano plebe pagana e corrotta, una plebe eterna e indomabile, a spasso fin dalla nascita tra palazzi, chiese, sculture, piazze, sacre parate. La loro grevità plebea era da secoli immersa nella bellezza universale. Erano loro, in quella Roma del papa-re, il teatro più perfetto al mondo dell’ignoranza infima e malvagia, che però a volte diventava per osmosi saggezza sacra e pagana, pur in un quadro di abbandono e di morte. Alcuni critici hanno definito Belli “un poeta dantesco”. Ma bisognerebbe aggiungere che si fermò all’inferno: l’unico luogo cui si addicono il comico e il grottesco, il lazzo osceno e il pensiero malizioso. In queste poesie Roma appare come un avamposto dell’Oltretomba, attraversato da luci fosche, marcio fino al midollo, in grado però di ghermire il lettore con le sue bellezze vischiose e imprevedibili.

L’opera poetica di Belli si fonda sul magma costituito dalla vita e dai pensieri degli strati più informi della società romana, dominata dalle gerarchie ecclesiastiche, e si traduce in una grande impresa conoscitiva, compiuta attraverso il dialetto. Gli studi più recenti ne hanno giustamente rivalutato la grandezza e, soprattutto, ricostruendo l’itinerario intellettuale formativo del poeta, ne hanno mostrato la curiosità culturale, la conoscenza di tanta filosofia e letteratura europea, la tormentata e drammatica contraddittorietà interiore tra una visione nella sostanza illuministica e un sentire politico schiettamente reazionario.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.

                  

“La nascita”                              17 gennaio 1832

 

Sora Giuvanna mia, a sto monnaccio

è stato un gran cardeo chi c’è vienuto!

Nun era mejo de pijà un marraccio

E d’accoppasse cor divin’ajuto?                                       4

 

Su la porta der monno ce sta: “Spaccio

de guainelle a l’ingrosso e a minuto:

de malanni passati pe ssetaccio:

de gioie appiccicate co lo sputo”.                                              8

 

Da regazzi, la frusta ce sfraggella,

da gioveni, l’invidia de la gente,

e da vecchi, un tantin de cacarella.                                           11

 

Basta, già che ce semo, alegramente:

e nun ce famo dà la cojonella

con don-der-fiotto che nun giova a gnente.                             14

 

Metro: sonetto (ABAB, ABAB, CDC, DCD)

 

Signora Giovanna mia, a questo brutto mondo è stato un grande imbecille chi c’è venuto! Non era meglio prendere un grosso coltello e uccidersi con l’aiuto di Dio? Sulla porta di questo mondo sta scritto: Vendita delle carrube all’ingrosso e al dettaglio (le carrube sono una metafora per guai): di malanni passati al setaccio (raffinati), di gioie appiccicate con lo sputo (quindi fragili). –Belli usa la formula sovrapposta alle osterie romane-. Da ragazzi la frusta ci sfracella, da giovani l’invidia della gente, da vecchi un pochino di cacarella. Basta, già che ci siamo, orsù, coraggio: e non ci facciamo dare la canzonatura con un piagnucolìo che non serve a niente.

 

Le quartine.

Leggere questa poesia mi impressiona. Muscetta l’ha accostata alle pagine eroiche dell’umanesimo leopardiano e, secondo me, non ha sbagliato. La rima in A (sto monnaccio, un marraccio, spaccio) ci introduce subito in un’atmosfera tesa e drammatica, resa ancora più incandescente da quel chiaro accenno al suicidio, assistiti addirittura da un aiuto divino. Mi vengono in mente le parole di Tristano a un amico, scritte nelle “Operette morali”: “Di più vi dico francamente ch’io non mi sottometto alla mia infelicità, né piego il capo al destino, o vengo seco a patti, come fanno gli altri uomini; e ardisco desiderare la morte, e desiderarla sopra ogni cosa, con tanto ardore e con tanta sincerità, con quanta credo fermamente che non sia desiderata al mondo se non da pochissimi (…) Libri  e studi, che spesso mi meraviglio d’aver tanto amato, disegni di cose grandi, e speranze di gloria e d’immortalità, sono cose delle quali è passato anche il tempo di ridere. Dei disegni e delle speranze di questo secolo non rido: desidero loro con tutta l’anima ogni miglior successo possibile (…) Oggi non invidio più né stolti né savi, né grandi né piccoli, né deboli né potenti. Invidio i morti, e solamente con loro mi cambierei”.

 

Le terzine.         

La prima terzina è una sintesi mirabile della vita miserabile dell’uomo povero e subalterno nell’Italia ottocentesca. La frusta è lo strumento principale dell’educazione dei piccoli; nell’età matura l’invidia governa le relazioni umane e sociali; in vecchiaia c’è l’abbandono fisico dei corpi stremati. Roma è descritta come una città plumbea, senza misericordia né perdono, una città ostile, dura e drammatica, con un poeta capace di plasmare il linguaggio, facendo di ogni parola un insostituibile complemento del racconto. Un narrare martellante, tagliente, inesorabile, impastato di fisicità.

 L’ultima strofa, a contrasto, è un’affermazione coraggiosa ed eroica di testimonianza virile. Il poeta vuole dirci: non facciamo in modo che dalla tragedia si possa far nascere la commedia, non piagnucoliamo invano: e questo con una seria pacatezza di tono, con la serenità ferma e distaccata di un testamento.

Voglio accostare a questo sonetto un testo di denuncia che insiste ancora sulla inutilità di ogni lamento. Ma, in coerenza con la sconfortante convinzione che la realtà è immutabile, il nostro popolano romano accetta supinamente il suo destino.

 

“E’ ‘gnisempre un pangrattato”

 

Pe noi, rubbi Simone o rubbi Giuda,

magni Bartolomeo, magni Taddeo,

sempr’è tutt’uno, e nun ce muta un gneo:

er ricco gode e ‘r poverello suda.                                    4

 

Noi mostreremo sempre er culiseo

e moriremo co la panza ignuda.

Io nun capisco dunque a che concruda

d’avé da seguità sto piagnisteo.                              8

 

Lo so, lo so che tutti li quadrini

ch’arrubbeno sti ladri, è sangue nostro

e de li fijji nostri piccinini.                                       11

 

Che serveno però tante cagnare?

Un pezzaccio de carta, un po’ d’inchiostro,

e tutt’”Ora-pro-me”: l’acqua va ar mare.                        14

 

                                      La solita zuppa

 

Per noi, poveracci, che rubi Simone o Giuda, mangi Bartolomeo o Taddeo, è sempre uguale e non ci cambia niente: il ricco gode e il poverello suda. Noi mostreremo sempre il sedere e moriremo con la pancia digiuna. Io non capisco dunque dove porti il continuare in questo piagnucolare. Lo so, lo so che tutto il denaro che rubano questi ladri è sangue nostro e dei nostri figli piccolini. A che servono però tante urla e tanto chiasso? Una nuova legge, un giornale che denuncia le ingiustizie: è tutto un “prega per me”, una ricerca dell’interesse personale, l’acqua continuerà a scorrere comunque verso il mare.

 

                                                        Gennaro  Cucciniello