G. G. Belli. L’inferno romano. “Er ceco”, 14 settembre 1835

La “Commedia umana” di G. Gioacchino Belli. L’inferno romano. – “Er ceco”, 14-9-1835

 

I popolani romani non hanno arte alcuna: non di oratoria, non di poetica: come niuna plebe n’ebbe mai. Tutto esce spontaneo dalla natura loro, viva sempre ed energica perché lasciata libera nello sviluppo di qualità non fattizie (sincere, non artificiali). Direi delle loro idee ed abitudini, direi del parlar loro ciò che può vedersi delle fisionomie. Perché tanto queste diverse nel volgo di una città da quelle degl’individui di ordini superiori? Perché non frenati i muscoli del volto all’immobilità comandata della civile educazione, si lasciano alla contrazione della passione che domina e dell’affetto che stimola; e prendono quindi un diverso sviluppo, corrispondente per solito alla natura dello spirito che que’ corpi informa e determina. Così i volti divengono specchio dell’anima (…) E dove con tal corredo di colori nativi io giunga a dipingere la morale, la civile e la religiosa vita del nostro popolo di Roma, avrò, credo, offerto un quadro di genere (vita comune, vita familiare, folklore) non al tutto spregevole da chi non guardi le cose attraverso la lente del pregiudizio (…) Il mio è un volume da prendersi e lasciarsi, come si fa de’ sollazzi, senza bisogno di progressivo riordinamento d’idee”.

Sono chiare queste indicazioni che Belli aveva scritto nell’Introduzione alla sua opera sterminata (più di 2250 sonetti). La Roma papale, nella sua decrepitezza ma anche per la sua centralità universale, era diventata la sede, eterna, di tutti i mali e le ingiustizie del mondo, un luogo escluso dalla storia e dalle sue illusioni di progresso (le leopardiane magnifiche sorti e progressive). “C’è il senso cupo di un destino immodificabile che”, scrive Asor Rosa, “accomuna nella stessa visione pessimistica del mondo servi e signori, prelati e popolo. Solo un riferimento a un altro suddito marginale dello Stato pontificio, Leopardi, potrebbe far capire la qualità e l’altezza della poesia belliana”.

La plebe di Roma: lavandaie sempre partorienti, poverelli, gatti a pigione, gabelle, ciechi di mestiere, impiegati inetti, pellegrini “sfamati a cazzimperio e miserere”, artigiani facili alle coltellate, concubine tra gli angioloni delle chiese con le trombe in bocca. Erano plebe pagana e corrotta, una plebe eterna e indomabile, a spasso fin dalla nascita tra palazzi, chiese, sculture, piazze, sacre parate. La loro grevità plebea era da secoli immersa nella bellezza universale. Erano loro, in quella Roma del papa-re, il teatro più perfetto al mondo dell’ignoranza infima e malvagia, che però a volte diventava per osmosi saggezza sacra e pagana, pur in un quadro di abbandono e di morte. Alcuni critici hanno definito Belli “un poeta dantesco”. Ma bisognerebbe aggiungere che si fermò all’inferno: l’unico luogo cui si addicono il comico e il grottesco, il lazzo osceno e il pensiero malizioso. In queste poesie Roma appare come un avamposto dell’Oltretomba, attraversato da luci fosche, marcio fino al midollo, in grado però di ghermire il lettore con le sue bellezze vischiose e imprevedibili.

L’opera poetica di Belli si fonda sul magma costituito dalla vita e dai pensieri degli strati più informi della società romana, dominata dalle gerarchie ecclesiastiche, e si traduce in una grande impresa conoscitiva, compiuta attraverso il dialetto. Gli studi più recenti ne hanno giustamente rivalutato la grandezza e, soprattutto, ricostruendo l’itinerario intellettuale formativo del poeta, ne hanno mostrato la curiosità culturale, la conoscenza di tanta filosofia e letteratura europea, la tormentata e drammatica contraddittorietà interiore tra una visione nella sostanza illuministica e un sentire politico schiettamente reazionario.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso” –diceva il grande poeta veneto- ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nei quali possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.

 

“Er ceco”                                                   14 settembre 1835

 

Lui, prima de cecasse in sta magnera,

negoziava de nocchie bell’e monne;

e adesso campa cor girà la sera

vennenno lettanìe pe le Madonne.                                       4

 

Co na vocetta liggèra liggèra

incomincia a cantà: “Crielleisonne,

Cristelleisonne…, e quela strega nera

de la moje sbavija e j’arisponne.                                           8

 

Lui cià fisse da venti a trenta poste

a un pavoletto o du’ carlini ar mese,

che poi tutti finischeno all’oste.                                             11

 

Sto ceco inzomma campa d’orazzione

come fanno li preti ne le chiese.

Nun ve pare una bella professione?                                     14   

 

Lui, prima di diventare cieco in questa maniera, commerciava in nocciole già sgusciate; e adesso campa recitando litanie a pagamento, la sera, davanti alle edicole delle Madonne. Con una vocetta leggera leggera incomincia a cantare: Kyrie eleison, Christe eleison (Signore, abbi pietà; Cristo, abbi pietà), e quella strega nera della moglie sbadiglia e gli risponde. Lui ha fissi da venti a trenta clienti a un paolo (moneta reale) o a due carlini (misura convenzionale corrispondente a sette baiocchi e mezzo) al mese, che poi tutti vengono spesi all’osteria. Questo cieco insomma campa di preghiere a pagamento come fanno i preti nelle chiese. Non vi sembra una bella professione?

 

Metro: sonetto (ABAB, ABAB, CDC, EDE).

 

Le quartine e la prima terzina. Il poeta-cronista si accinge a presentarci questo quadretto di vita romana. Usando l’anafora, Lui, all’inizio del 1° e del 9° verso (prima quartina e prima terzina), ci presenta il personaggio principale, un povero diavolo, che –prima di diventare cieco- faceva l’ambulante per le strade di Roma e ora fa l’accattone soprattutto davanti alle edicole con l’immagine della Madonna. Gli spazi sono definiti con precisione dettagliata: venti o trenta postazioni; il tempo è di sera. La rima in A è strabiliante: la vocetta del cieco è “liggèra liggèra” (v. 5), accompagnata dallo sbadiglio della moglie, “strega nera” (v. 7), tutto mirabilmente assonantizzato, “vocetta, liggèra, quela, strega, nera”. Il denaro elemosinato viene dai due consumato all’osteria.

Il racconto, freddo e distaccato, smorza gli eccessi ma nello stesso tempo illumina ogni dettaglio, puntualizza i ruoli, sottolinea con pungente ironia una condizione quasi eterna di sordità e disordine.

L’ultima terzina. L’intero sistema della preghiera istituzionale non è altro che un mestiere. Il cieco ci campa alla stessa stregua dei preti, lui fuori delle chiese, i preti dentro. Le pratiche religiose sono inquinate da interessi meschini e ipocriti. C’è sdegno autentico ma a Belli manca la fiducia che la situazione possa cambiare, i versi perciò esprimono un senso amaro e fatalistico d’immobilità e una comicità cupa e tragica, priva di speranza.

Il poeta è osservatore della quotidianità, è rigattiere della contemporaneità, scrutatore degli angoli dimenticati della città e ci fa ascoltare una litania patetica e struggente, romanescamente feroce.

 

Il giorno prima, il 13 settembre, Belli aveva creato un’altra immagine potente:

                                                           L’avaro

E’ ttant’avaro quer vecchio assassino

che schiatterebbe pe nun dà una spilla,

e ppe nun spenne l’arma d’un quadrino

nun ze farebbe dì mezza diasilla.                                                     4

 

La matina, in ner batte l’acciarino

pe preparasse er tè de capomilla,

pija un pezzo de lesca piccinino

piccinino ppiù assai de la favilla.                                                      8

 

La barba se la fa ssenza sapone,

e ‘r zu’ rasore nu l’affila mai

pe ppavura che vadi in cunzunzione.                                                          11

 

E ar tempo de li frutti fa er mistiere

d’ariccoje ossi, e quanno ce n’ha assai

ne va a venne le mannole ar drughiere.                                         14

 

  Gennaro  Cucciniello