Belli. La Politica. 2- “Li du’ generi umani”, 7 aprile 1834

 

La “Commedia umana” di G. Gioacchino Belli. La politica. 2-“Li du’ generi umani”. 7 aprile 1834

 

 

Quale prefazione riporto una lucida analisi di R. Marchi: “Per Belli, a differenza del Porta, il romanesco impiegato nelle poesie è uno strumento letterariamente vergine, che per la prima volta (al di là della tradizione popolare degli stornelli, delle pasquinate, della poesia sguaiatamente comica) viene elevato a lingua della “verità”, veicolo privilegiato per i contenuti semplici, umili, spesso brutali di una classe sociale diseredata e vessata da secoli di governo papale. L’assenza di una codificazione letteraria (ma anche più semplicemente grammaticale) del romanesco consente allo scrittore di ottenere un effetto di particolare immediatezza espressiva. La lingua appare quindi una risorsa preziosa per testimoniare senza diaframmi culturali o ideologici un mondo emarginato e sconosciuto ai più. Il suo messaggio è pervaso di rinuncia, di polemica sfiducia nelle sorti dell’uomo, di ribellione senza sbocco possibile. Facendo parlare direttamente i personaggi (uomini di malaffare, donne sfortunate o perdute, prelati disinvolti e maneggioni, emarginati sociali) Belli, oltre a darci una complessa immagine di quel sottobosco sociale, esprime –dietro il velo di quelle voci acri o semplici- anche il senso forse più profondo della sua riflessione.

“La parola, così, esprime la risposta che non ammette repliche e annichilisce l’interlocutore, diventa lo strumento che mette a nudo l’ipocrisia di un comportamento o di una situazione, è l’arma con la quale il popolano dimostra di cogliere, pur nella sua rozzezza, la vera sostanza delle strutture politiche, sociali e ideologiche che lo circondano e lo opprimono. Una gran parte dei sonetti è dedicata alla rappresentazione dei molteplici personaggi che popolano le vie e le piazze di Roma: l’autore non li descrive ma li fa parlare; essi raccontano un fatto accaduto o dialogano tra loro, ma il più delle volte con un interlocutore muto che può essere la moglie, il figlio, l’amico o il compagno di osteria. Sfilano così sotto gli occhi di noi lettori vetturini e artigiani, accattoni e prostitute, mariti traditi e guappi di quartiere”.

La critica ha potuto parlare della sua opera come dell’espressione della crisi di una cultura borghese moderna in uno Stato, come quello della Chiesa, ancora privo di una vera classe borghese, diviso nella schematica opposizione tra nobiltà ecclesiastica e popolo diseredato. Nella poesia di Belli si trova quindi descritta una situazione sociale e culturale unica nella storia europea: il contrasto fra la Roma tesoro di antichità, meta di viaggio degli intellettuali di tutta Europa che vi cercavano le vestigia della grandezza di un tempo, la Roma “città sacra” e cuore della cristianità, e la Roma plebea, priva di strutture economiche e sociali moderne, profondamente provinciale, inconsapevolmente decadente. Nonostante Belli non esibisca il dolore sociale per pronunziare una impegnativa condanna politica nondimeno in questa commedia umana rappresentata ai suoi livelli più infimi si avverte la presenza della riflessione razionalista e pessimista dell’intellettuale formatosi soprattutto sulla scorta del pensiero illuminista. La stessa struttura dei suoi “Sonetti” ne testimonia l’emblematicità: l’autore non li aggregò infatti secondo un ordito narrativo e strutturale definito. La serie vive, in cadenza cronologica, della complessità e caoticità della vita che anima la Città Eterna. Fuori da qualsiasi costruzione preordinata, trionfano così il dialogo o il monologo, con cui gli stessi personaggi si rappresentano e si impongono sulla scena della vita (letteraria) per un breve momento, rivelando la felice attitudine del poeta alla resa scenica, teatrale degli episodi”, dimostrando la sua capacità e volontà di ubbidire al dettato dantesco: “forti cose a pensare mettere in versi” (Purgatorio, XXIX, 42).

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nei quali possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.

Li du’ generi umani” 7 aprile 1834

Noi, se sa, ar monno semo usciti fori

impastati de merda e de monnezza.

Er merito, er decoro e la grannezza

sò ttutta marcanzia de li ssignori. 4

A ssù Eccellenza, a ssù Maestà, a ssù Artezza

fumi, patacche, titoli e sprennori;

e a noantri artigiani e servitori

er bastone, l’imbasto e la capezza. 8

Cristo creò le case e li palazzi

p’er prencipe, er marchese e ‘r cavajiere,

e la terra pe noi facce de cazzi. 11

E quanno morze in croce, ebbe er penziere

de sparge, bontà ssua, fra ttanti strazzi,

pe quelli er zangue e ppe noantri er ziere. 14

E’ cosa risaputa, tutti noi esseri umani siamo nati impastati di merda e di immondizia. Eppure il merito, il decoro, la grandezza appartengono tutti ai signori. A Sua Eccellenza, a Sua Maestà, a Sua Altezza incensi, decorazioni, titoli e splendori; e a noi altri, artigiani e servitori, il bastone, il basto e la cavezza (come a muli ed asini). Gesù Cristo ha creato le case e i palazzi per il principe, il marchese, il cavaliere, e la terra per noi facce di cazzi. E quando morì in croce si preoccupò pure, bontà sua, di spargere, in mezzo a tante sue torture, per quelli il sangue e per noi altri il siero.

Metro: sonetto (ABBA, BAAB, CDC, DCD).

Le quartine. Nel sonetto c’è una forte carica di appassionata e arrabbiata indignazione che si struttura, nell’argomentazione, su una simmetria a chiasmo. Nei primi due versi il soggetto è “noi povera gente” che si lega ai vv. 7 e 8, noantri artigiani e servitori; li siggnori del v. 4, dettagliati in Eccellenze, Maestà, Altezze, richiamano li titoli e li sprennori del v. 6. La contrapposizione è rafforzata dal gioco delle rime: il semo usciti fori (v. 1) contrasta con li signori (v. 4), sprennori (v. 6) si scontra con sservitori (v. 7), monnezza (v. 2), in coppia assonanzata con merda, è in antitesi con grannezza (v. 3), Artezza (v. 5) fa gioco con capezza (v. 8). Anche il ritmo risente di un calibrato contrappeso tutto basato su sostantivi: sono due nel secondo verso (merda e monnezza), crescono a tre nel terzo (merito, decoro, grannezza), restano tre nel quinto (Eccellenza, Maestà, Artezza), salgono addirittura a quattro nel sesto (fumi, patacche, titoli e sprennori), scendono a due nel settimo (artiggiani e sservitori), ritornano a tre nell’ottavo (bastone, imbasto e capezza). Certo, c’è rabbia ma anche la convinzione lucida che il modo con il quale è organizzata la società –oltre che ingiusta- è assurda e che le giustificazioni addotte per conservare questo ordine sociale sono radicalmente irrazionali.

Il “se sa” (v. 1) denota la riflessione di chi ha già tra sé e sé confutato un’argomentazione (quella dell’innata disuguaglianza) sentita tante altre volte, e che tuttavia la voce anonima del narrante descrive con minuzia per farne venire fuori, dal suo interno stesso, tutta la sua mostruosa inumanità. Infine, c’è il Noi, pronome che dà inizio alla riflessione poetica, connotazione della povera gente, ripreso con forza dal noantri del v. 7. Un’altra notazione è richiesta dall’uso sapiente degli enjambement che a mezzo di ogni distico legano i pensieri: usciti fori / impastati (vv. 1-2), grannezza / so tutta (vv. 3-4), Artezza / fumi (vv. 5-6), servitori / er bastone (vv. 7-8).

Le terzine. Nelle strofe conclusive c’è la rivendicazione della solidarietà con tutti quelli che subiscono la violenza della storia. Questa violenza non è contingente, storica, ma sembra nascere abbeterno dalla stessa volontà di Dio ed è confermata persino dalla morte sacrificale di Cristo. Anche in questi versi c’è la ripresa, come all’inizio, dello schema –valido per i poveri e i diseredati- del noi facce de cazzi (v. 11) e del noantri finale. E il gioco dell’enjambement, li palazzi / p’er prencipe (vv. 9-10), er penziere / de sparge (vv. 12-13), accentuato e rafforzato dalle chiuse epigrammatiche, e la terra pe noi facce de cazzi (v. 11), pe quelli er zangue e ppe noantri er ziere (v. 14).

Mi sembra la rappresentazione marmorea e inconfutabile di ciò che è assurdo senza rimedio. Si nega l’idea del Dio d’amore e c’è l’immagine di un Dio ingiusto e incomprensibile. La Croce non ha redento il genere umano, spaccato in due dall’abisso incolmabile della condizione sociale. Chi è Dio veramente? Il solito Dio –nella cui esistenza Belli crede- tiranno, protettore e amico dei tiranni terreni? E’ solo un consunto e sterile strumento del potere? Alle soglie di questo tremendo interrogativo il nostro poeta si ferma.

Il giorno dopo, l’8 aprile 1834, Belli scrive –quasi per divagazione- un sonetto bellissimo, intimista e attento ai fenomeni naturali. Leggetelo con me:

Li nuvoli

Stateme ben attente, che ve vojo

spiegà che ssò li nuvoli, sorelle.

So ttante pelle gonfie, ugual’a quelle

che qui a Ripetta ce se mette l’ojo. 4

Me so ffatto capì? Dunque ste pelle

s’empieno d’acqua e de tutto l’imbrojo

de grandine e de neve. Oh, mo ve sciojo

er come Iddio po’ ffà ppe sostenelle. 8

Iddio manna li spiriti folletti,

che soffiannoje sotto co la bocca,

li vanno a ssollevà ssopr’a li tetti. 11

Si in questo quarche nuvolo se tocca,

ce se fanno qua e là ttanti bucetti,

e allora piove giù, grandina e ffiocca. 14

Le nuvole

State ben attente a questo mio racconto: mie care amiche, voglio spiegarvi che cosa sono le nuvole. Sono tante pelli gonfie, del tutto uguali a quelle che qui, a Ripetta, il più piccolo dei due porti del Tevere a Roma, sono usate per metterci l’olio. Sono riuscito a farmi capire? Dunque, queste pelli si riempiono d’acqua e anche di grandine e di neve. Oh, adesso vi spiego come Dio può fare per farle sostenere in aria. Iddio manda una moltitudine di spiriti folletti che, soffiando con la bocca sotto le nuvole, le sollevano sopra i tetti delle case. Se in questo momento qualche nuvola va a toccare le tegole si producono qua e là tanti piccoli buchi e allora quaggiù piove, grandina e fiocca.

Magico e incantevole questo ultimo verso.

Gennaro Cucciniello