“Li soprani der monno vecchio”, sonetto di G. G. Belli. 21 gennaio 1832. La Politica.

La “Commedia umana” di G. Gioacchino Belli. “La politica”.  “Li soprani der monno vecchio”                   21 gennaio 1832

Quale prefazione riporto una lucida analisi di R. Marchi: “Per Belli, a differenza del Porta, il romanesco impiegato nelle poesie è uno strumento letterariamente vergine, che per la prima volta (al di là della tradizione popolare degli stornelli, delle pasquinate, della poesia sguaiatamente comica) viene elevato a lingua della “verità”, veicolo privilegiato per i contenuti semplici, umili, spesso brutali di una classe sociale diseredata e vessata da secoli di governo papale. L’assenza di una codificazione letteraria (ma anche più semplicemente grammaticale) del romanesco consente allo scrittore di ottenere un effetto di particolare immediatezza espressiva. La lingua appare quindi una risorsa preziosa per testimoniare senza diaframmi culturali o ideologici un mondo emarginato e sconosciuto ai più. Il suo messaggio è pervaso di rinuncia, di polemica sfiducia nelle sorti dell’uomo, di ribellione senza sbocco possibile. Facendo parlare direttamente i personaggi (uomini di malaffare, donne sfortunate o perdute, prelati disinvolti e maneggioni, emarginati sociali) Belli, oltre a darci una complessa immagine di quel sottobosco sociale, esprime –dietro il velo di quelle voci acri o semplici- anche il senso forse più profondo della sua riflessione.

“La parola, così, esprime la risposta che non ammette repliche e annichilisce l’interlocutore, diventa lo strumento che mette a nudo l’ipocrisia di un comportamento o di una situazione, è l’arma con la quale il popolano dimostra di cogliere, pur nella sua rozzezza, la vera sostanza delle strutture politiche, sociali e ideologiche che lo circondano e lo opprimono. Una gran parte dei sonetti è dedicata alla rappresentazione dei molteplici personaggi che popolano le vie e le piazze di Roma: l’autore non li descrive ma li fa parlare; essi raccontano un fatto accaduto o dialogano tra loro, ma il più delle volte con un interlocutore muto che può essere la moglie, il figlio, l’amico o il compagno di osteria. Sfilano così sotto gli occhi di noi lettori vetturini e artigiani, accattoni e prostitute, mariti traditi e guappi di quartiere”.

La critica ha potuto parlare della sua opera come dell’espressione della crisi di una cultura borghese moderna in uno Stato, come quello della Chiesa, ancora privo di una vera classe borghese, diviso nella schematica opposizione tra nobiltà ecclesiastica e popolo diseredato. Nella poesia di Belli si trova quindi descritta una situazione sociale e culturale unica nella storia europea: il contrasto fra la Roma tesoro di antichità, meta di viaggio degli intellettuali di tutta Europa che vi cercavano le vestigia della grandezza di un tempo, la Roma “città sacra” e cuore della cristianità, e la Roma plebea, priva di strutture economiche e sociali moderne, profondamente provinciale, inconsapevolmente decadente. Nonostante Belli non esibisca il dolore sociale per pronunziare una impegnativa condanna politica nondimeno in questa commedia umana rappresentata ai suoi livelli più infimi si avverte la presenza della riflessione razionalista e pessimista dell’intellettuale formatosi soprattutto sulla scorta del pensiero illuminista. La stessa struttura dei suoi “Sonetti” ne testimonia l’emblematicità: l’autore non li aggregò infatti secondo un ordito narrativo e strutturale definito. La serie vive, in cadenza cronologica, della complessità e caoticità della vita che anima la Città Eterna. Fuori da qualsiasi costruzione preordinata, trionfano così il dialogo o il monologo, con cui gli stessi personaggi si rappresentano e si impongono sulla scena della vita (letteraria) per un breve momento, rivelando la felice attitudine del poeta alla resa scenica, teatrale degli episodi”, dimostrando la sua capacità e volontà di ubbidire al dettato dantesco: “forti cose a pensare mettere in versi” (Purgatorio, XXIX, 42).

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nei quali possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.

 “Li soprani der monno vecchio”                       21 gennaio 1832

 

 

C’era una vorta un Re cche ddar palazzo

 

mannò ffora a li popoli st’editto:

 

“Io sò io, e vvoi nun zete un cazzo,

 

sori vassalli bbuggiaroni, e zzitto.                                                   4

 

 

Io fo ddritto lo storto e storto er dritto:

 

pòzzo vénneve a ttutti a un tant’er mazzo:

 

Io, si vve fo impiccà, nun ve strapazzo,

 

ché la vita e la robba Io ve l’affitto.                                                 8

 

 

Chi abbita a sto monno senza er titolo

 

o dde Papa, o dde Re, o dd’Imperatore,

 

quello nun pò avé mmai vosce in capitolo”.                                              11

 

 

Co st’editto annò er boja pe ccuriero,

 

interroganno tutti in zur tenore;

 

e arisposeno tutti: “E’ vvero, è vvero”.                                                        14

 

C’era una volta un re che dal suo palazzo promulgò questo editto e lo fece conoscere al popolo: “Io sono io e voi non siete niente, signori vassalli villani mascalzoni e imbroglioni, e state zitti, non osate replicare. Io le cose storte le faccio diventare diritte e, viceversa, storco le diritte: posso vendervi tutti a un prezzo ridicolo: io, se vi faccio impiccare, non vi tratto con ingiustizia, poiché la vostra vita e la vostra roba sono mie, mi appartengono, e io ve le concedo solo in affitto temporaneo. Chi abita in questo mondo e non ha il titolo di Papa, di Re o d’Imperatore, quello non ha mai alcuna voce in capitolo, non conta nulla”. Con questo proclama come corriere banditore fu mandato il boia, che interrogava tutti al riguardo, sulla veridicità di quanto affermato nell’editto, chiedeva loro cosa ne pensassero; e tutti, ma proprio tutti, risposero: “E’ vero, è vero”.

Metro. Sonetto (ABAB, ABAB, CDC, EDE).

Le quartine e la prima terzina (vv. 1-11).

E’ splendido l’avvio del discorso con quella ironica intonazione da favola, che però introduce ad una realtà terribile, in forte antitesi con l’incipit fiabesco, in un contesto crudamente realistico. Il titolo sembrava suggerire che i personaggi appartenessero ad un tempo e ad un mondo ormai tramontati; invece la rappresentazione è quella di un signore padrone in pieno secolo XIX di un pezzo di medioevo. E’ il papa-re, tiranno capriccioso, signore di una Roma assoggettata a un potere arbitrario e minaccioso. Il re è tanto prepotente ed egoista da prolungare enormemente la piccola realtà del suo Io che si contrappone a un Voi miserabile. A contraltare c’è un popolo tremante e pavido che è pronto e sollecito ad accettare l’incredibile arbitrio.

Le prerogative sovrane sono costruite in un crescendo di assurdità: l’autocrazia assoluta (l’Io so io del verso 3 riecheggia l’Ego qui sum del Dio della Bibbia), la facoltà di sovvertire le leggi, la proprietà assoluta dei beni e delle persone dei sudditi vassalli,semplici affittuari della vita. La rima in A (palazzo, cazzo, mazzo, strapazzo) esprime genuinamente il concetto che il popolano romano ha del potere papale: l’onnipotenza dei palazzi curiali, l’efficacia della repressione, la scurrilità delle espressioni sia dei dominatori che dei dominati ai quali non resta che la bestemmia e il turpiloquio.

La seconda terzina.

Nel finale come corriere viaggia il boia, che si preoccupa di ascoltare (sic) le opinioni dei sudditi dalla loro viva voce, ottenendo in risposta un belato unanime.

Alcuni hanno voluto vedere nel sonetto un’opinione genuinamente anti-tirannica; il poeta, favolatore attento, svela con puntigliosa e veritiera malignità il segreto del conformismo dei più (dei quali fa parte anche lui) per dire alla fine: siamo veramente vigliacchi, noi romani, ma non ci è possibile alcuna altra scelta. E’ quindi un apologo amaro sull’essenza del potere che può nascere dalla fantasia popolare, dalla fantasia di chi le violenze e i soprusi di un potere assoluto e arbitrario li ha sperimentati davvero tutti. Amara e ambigua è questa chiusa che nello stesso tempo indica l’abuso più grave, costringere gli oppressi all’umiliazione estrema (il boia banditore dell’editto), ma denuncia però nella remissività popolare una specie di legittimazione dell’arbitrio.

Belli descrive, sa mettere in rilievo i caratteri di una situazione ma non rivela, in ultima analisi, se consideri l’immobilismo sociale un frutto dell’ ingiusta sopraffazione dei potenti, la necessaria sottomissione ad un potere violento o l’amara constatazione della supina acquiescenza della gente, la logica conseguenza dell’abulia popolare.

Due giorni prima, il 19 gennaio 1832, Belli aveva scritto un altro sonetto che si rivela un’ironica antitesi di questo che ho commentato:

            “L’ommini der monno novo”                                 19 gennaio 1832

 

Questo dallo a d’intenne ar padre Patta

quello che dice: “Vienite davanti”.

Lo so da me che ce so ttanti e ttanti

che nun vonno iggnottì la pappa fatta.                                          4

 

Ma st’anime de miccio, sti fumanti,

sti frammasoni, sta gentaccia matta,

li spadini li tiengheno de latta:

so boni a ciarle, ma no a ffasse avanti.                                           8

 

La balla de sti poveri cardei

vò scopà li soprani e ffalli fori

pe dì poi “scirpa” e ffà le carte lei.                                                    11

 

Ma ppòi puro risponne a sti dottori

che Iddio l’ommini, for de cinqu’o ssei,

tutti l’antri l’ha ffatti servitori.                                                                     14

 

Questa tua opinione dalla ad intendere a padre Patta, quello che dice: Venite davanti a me (a Roma correva voce che un certo padre Patta confessore un giorno ascoltò un fedele cristiano; non credendo a quello che gli si diceva, lo apostrofò: “Figlio, venite davanti a me”. Quando il malcapitato si fu portato davanti al confessionale, si sentì dire dal prete: “Vallo a dire a questi coglioni”). Io lo so che ci sono tante persone che non vogliono inghiottire le cose che altri hanno ordinato. Ma questa gente di vita perduta, queste persone che s’arrabbiano facilmente, questi framassoni, questa gentaccia matta, tengono le spade di latta, sono buoni a parlare ma non a farsi avanti, a combattere. La congrega di questi poveri imbecilli vuole spazzare via i sovrani ed eliminarli, per dire poi “scirpa” (è una parola che pronuncia la plebe quando s’impadronisce manescamente di qualche cosa, rendendola secondo loro non più richiedibile) e comandare lei. Ma tu puoi anche rispondere a questi dottori che Dio, eccetto cinque o sei, tutti gli altri uomini li ha fatti servitori.

Ecco ribadita la fatalistica incredulità del popolano nei confronti di ogni forma di modificazione di uno status quo sociale e politico che egli si è abituato a considerare eterno. A quanti vogliono abbattere le strutture del potere dell’ancien régime il plebeo contrappone l’immodificabile contrapposizione: pochi potenti privilegiati e un numero sterminato di servi.

                                                                       Gennaro  Cucciniello