Santa Cecilia, faccia a terra come i corpi dei migranti

Santa Cecilia, faccia a terra come i corpi dei migranti

 

Stefano Maderno, “Santa Cecilia”, marmo, 1599. Roma, Basilica di Santa Cecilia in Trastevere.

Il 22 novembre 1599 papa Clemente VIII –seguendo otto cardinali che portavano a spalla una bara- scoppiò a piangere, e con lui pianse tutto il popolo romano: “per l’ultima vista, che più non si doveva avere, di un sì bello e tanto miracoloso corpo”. Era passato un mese, ormai, da quel mercoledì 20 ottobre in cui il corpo dell’antica martire Cecilia era stato trovato sotto l’altare della chiesa di Trastevere: e l’attenzione di tutta Roma si era concentrata sul senso della vista, in un’ossessione di massa. Subito si era sparsa la notizia che voleva quel corpo incorrotto: il sangue ancora fresco, le ferite del martirio evidenti dopo quasi mille e quattrocento anni. E benché stia scritto “beati quelli che, pur non avendo visto, crederanno”, tutti, dal papa in giù, avevano voluto vedere, con i propri occhi. Il concorso del popolo fu incredibile, e nemmeno la guardia svizzera riuscì a contenere le ondate di pellegrini e romani che si accalcavano pericolosamente nelle vie di Trastevere, inducendo a istituire sensi unici per le carrozze, a dichiarare festivo il giorno della solenne ritumulazione e chiudere a più riprese la basilica.

Oggi abbiamo molti dubbi su ciò che realmente conteneva quella cassa, che era stata confezionata da papa Pasquale I nell’anno 821, ed era stata probabilmente riaperta almeno nel 1466. Alcune caute precisazioni di illustri testimoni del 1599 suggeriscono che forse si volle intravedere, nella singolare sagoma di un mucchio di stoffe, la sagoma di un corpo umano.

Ma un cardinale con meno scrupoli –Paolo Camillo Sfondrati, che era il padrone di casa, cioè il titolare della chiesa- chiese ad uno scultore, Stefano Maderno, di scolpire nel marmo candido ciò che tutti dicevano di aver visto. E Maderno lo fece, con la forza e la verità di un Caravaggio della scultura.

Oggi non ci chiediamo più se nel 1599 i romani videro proprio ciò che noi vediamo nel marmo di Maderno. Non ce lo chiediamo perché sentiamo che Maderno dice il vero: non su Cecilia, ma su altri corpi.

Su corpi di oggi, che cerchiamo di non vedere. Questa ragazza senza occhi e senza labbra non può vederci e non può parlarci. Perché ha la faccia a terra, nella polvere. Proprio come i corpi dei migranti che il mare spinge sulle nostre spiagge: corpi che questo corpo di marmo senza volto, scolpito 420 anni fa, in qualche modo ci forza a vedere. Costringendoci a dire che siamo testimoni oculari. Che lo vogliamo o no.

                                                                  Tomaso Montanari

(in “Ora d’arte”, Venerdì di Repubblica, 9 giugno 2017, pag. 105)

Fin qui la rubrica di Montanari. Scrivo qualcosa di più sulla scultura di Maderno, fatta nello stesso anno in cui Caravaggio stava ultimando le tele su San Matteo in San Luigi dei Francesi.

Il corpo minuto, accarezzato da un morbido e sciolto panneggio, e la posizione naturale e composta rivelano una fresca semplicità interpretativa. Maderno –partecipe dello spirito della Controriforma- crea un’immagine commovente che vuole ricordare ai fedeli i sacrifici dei primi cristiani: la santa distesa sopra una lastra di marmo entro una nicchia davanti all’altare maggiore è simbolo di fede ed esempio di perseveranza. L’opera, eseguita in marmo bianco a dimensioni naturali, è collocata ai piedi dell’altare in una nicchia di marmo nero e suscita grande impressione per la delicata naturalezza e la semplicità di concezione e modellazione, molto lontane da ogni ricerca di complessità e virtuosismo. Dolce figura avvolta in un morbido manto, la santa giace in un abbandono tenero e composto, che sembra non avere nulla in comune con la fredda rigidità della morte. E’ un’immagine intima e serena, elegante senza essere artificiosa, morbido corpo a cui l’abbandono della morte conferisce una grazia tenera e innocente.

Se nella Roma di Sisto V e nella Milano di San Carlo Borromeo si assiste, nell’ambito della scultura, alla più scrupolosa applicazione dello spirito tridentino nell’alveo della tradizione manierista, l’eredità michelangiolesca e la ricerca di una nuova espressività fortemente venata di sentimenti produce qui una delle prime espressioni iscrivibili al gusto barocco. La santa, incastonata nell’altare in un insieme polimaterico di grande suggestione, è connotata da quello slancio patetico e quella spontaneità di effetti, insieme realistici e idealizzati, veri e teatrali, che sintetizzano la linea fondamentale e caratterizzante del linguaggio plastico di età barocca.

 

                                                                  Gennaro  Cucciniello