La Venezia di Canaletto, opera di tutto un popolo

La Venezia di Canaletto, opera di tutto un popolo

Canaletto, “Il laboratorio dei marmi a San Vidal”, 1725 circa, olio su tela. Londra, National Gallery.

 

Figlio di un pittore teatrale e dunque espertissimo nell’arte scenografica, Antonio Canal, a tutti noto come il Canaletto, portò a un livello prima inimmaginabile il genere della veduta urbana, partendo soprattutto dall’opera del padre di Luigi Vanvitelli, Gaspar Van Wittel, e da quella del friulano Luca Carlevarijs.

Ci si è molto interrogati sul suo uso della camera ottica, una scatola con un piccolo foro su un lato, dal quale entra la luce che proietta, sul lato opposto all’interno della camera, l’immagine capovolta e rovesciata di ciò che fronteggia. E’ certo che Canaletto l’abbia utilizzata, anche se non sappiamo esattamente in quale modo: ma la sua arte non dipese da qualcosa che stava fuori, ma da qualcosa che stava dentro i suoi stessi occhi. Come scrisse lucidamente Luigi Lanzi, padre della moderna storia dell’arte italiana, Canaletto “usa qualche libertà pittoresca, sobriamente però, e in modo che il comune degli spettatori vi trova natura, e gli intendenti vi trovano arte. Questa possedé in grado eminente”.

In cosa consisteva quest’arte? Un pittore che, negli anni Venti del ‘700, vide le prime grandi prove di Canaletto scrisse che la novità, rispetto alle altre vedute fino ad allora praticate, è che nelle sue “vi si vede lucer entro il sole”. Per capire queste parole possiamo considerare questa veduta nella quale il pittore inquadra due campi, al di qua e al di là del Canal Grande –all’altezza del ponte dell’Accademia-, mettendo in primo piano la baracca dove si ricoveravano gli operai intenti a segare i marmi per i lavori nell’adiacente chiesa di San Vidal, che non vediamo. Al centro della scena c’è, dunque, un’altra Venezia: popolare come avrebbe potuto vederla un Giuseppe Crespi, lontanissima dagli eleganti protagonisti del Settecento veneziano da cartolina. Il colore è saturo, denso, freddo come uno smalto e le ombre cadono nette sotto una luce assoluta, che indugia sui particolari più feriali, ignobili, e rimbalza come un lampo sulle tende candide che sventolano fuori dalle finestre, o sui ferri di prua delle gondole che attraversano il Canale.

Lo storico dell’arte Alessandro Brogi ha notato che “questo prosaico recesso veneziano immortalato dal pennello di Canaletto sembra rispondere, nel profondo, all’impressione che Goethe a fine secolo avrebbe tratto dalla vista della città, sentita come “l’opera grandiosa e veneranda… non di un solo principe, ma di tutto un popolo”. Una Venezia che oggi ci manca moltissimo.

(in “Ora d’arte”, Venerdì di Repubblica, 8 giugno 2018, pag. 89)

 

Fin qui le note di Montanari. Aggiungerei una sottolineatura sulla  camera ottica che non è un sussidio prospettico: di prospettiva Canaletto, già scenografo, sapeva anche troppo. E’ un modo per sfrondare, detergere l’immagine dal falso vedere a cui gli occhi e la mente sono stati abituati dalle infinite astuzie della prospettiva barocca: troppo spesso impiegata, non già a veder chiaro, ma a bella posta a confondere le idee. Alla prospettiva-mestiere, che imbroglia, oppone la prospettiva-tecnica, che accerta e verifica il dato visivo.

Il quadro ha una struttura semplice, con la quinta della casa appena visibile a sinistra e la diagonale del cantiere in legno a destra, come elementi che creano profondità. Sorprendente è la calda incidenza della luce, che fa vivere la tessitura di pietra in un ineguagliato gioco di luce e ombra. La scena in primo piano –le donne affaccendate coi bambini, i tagliapietra col loro lavoro- ha un’immediatezza di osservazione quasi fiamminga.

                                                        Gennaro Cucciniello