Sonetti del Belli. “Lo Stato pontificio”. Lo scalone delle bustarelle. 26 aprile 1834

La “Commedia umana” di G. Gioacchino Belli. “Lo Stato pontificio”.   “La scala de li strozzi”. 26 aprile 1834

 

La Roma raccontata dal Belli è la Roma dei sei papi che regnarono nei settantadue anni (1791-1863) nei quali egli visse, anni di enormi agitazioni, di grandi rivoluzioni politiche, di un frenetico andirivieni tra occupazioni militari e restaurazioni, in una città sordida e spopolata, abitata da plebi –con quelle di Napoli- tra le più incolte e ciniche che ci fossero allora in Italia. Il poeta ritrae questa città che si lascia vivere con indolenza mentre si diffonde la consapevolezza che lo Stato della Chiesa è diventato ormai un anacronismo.

Già in un sonetto del 1832 (“Li punti d’oro”) Belli aveva scritto: “Cusì viengheno a dì li giacubini,/ ar gran sommo pontefice Grigorio:/”che te fai de li stati papalini,/ dove la vita tua pare un mortorio?”. Non fu così facile, comunque, liberarsi di questi “stati papalini”. Ancora nel 1862 trecento vescovi reclamarono che il potere temporale dei papi era una necessità voluta direttamente dalla Provvidenza divina (un parallelo blasfemo con il centro-destra italiano che, nel 2011, solennemente ha votato in Parlamento –per difendere la crapula di papi-Berlusconi- che la prostituta minorenne Ruby era nipote di Mubarak?). Affermazioni impegnative per questi vescovi, un anno dopo la proclamazione dell’unità d’Italia.

Non si dimentichi che papa Gregorio XVI, che tanto piaceva a Belli, era il papa che nell’enciclica “Mirari vos” del 1832 aveva scritto tra l’altro: “E’ un vaneggiamento che ognuno debba avere libertà di coscienza, a questo nefasto errore conduce quell’inutile libertà d’opinione che imperversa ovunque”. “La sessantina di sonetti dedicati a questo papa rendono bene, nell’insieme, l’idea che il popolo romano poteva avere del papa-re: da una parte la fede cristiana, anche se spesso rappresentata dal poeta come superstizione, fa rimanere salda la componente religiosa della figura del papa, come successore di Pietro e Cristo in terra; ma i romani, proprio per la vicinanza fisica con l’uomo che ad un certo punto diventa papa e la diretta conoscenza dei meccanismi per nulla spirituali che lo portano all’elezione al pontificato, lo giudicano anche come individuo e lo temono come governante che impone le gabelle e commina le condanne, come capo della fatiscente società del putrido Stato pontificio”.

Alla fine, quando al soglio di Pietro salirà Pio IX – che si stava acquistando fama di “liberale”-, Belli –in un sonetto del gennaio 1847, scriverà un testo con un attacco grandiosamente reazionario: “No, sor Pio, pe’ smorzà le turbolenze,/ questo qui non è er modo e la magnera./ Voi, padre santo, nun n’avete cera,/ da fa’ er papa sarvanno le apparenze./ La sapeva Grigorio l’arte vera / de risponne da Papa a l’insolenze./ Vonno pane? Mannateje indurgenze;/ vonno posti? Impiegateli in galera”.  

Nell’Introduzione alla sua opera Belli aveva spiegato i motivi che lo avevano spinto a scegliere per i suoi testi la forma del sonetto: egli voleva costruire tanti quadretti distinti, soprattutto per raggiungere due scopi: il lettore doveva accostarsi alla raccolta senza nessun impegno di dover continuare nella lettura; il poeta doveva usare una forma in sé conclusa in un veloce giro di versi, perché la realtà descritta si concentra tutta in brevi episodi, in azioni e battute di spirito, tanto più efficaci in quanto si esauriscono nel momento in cui sono colti.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio nei quali possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.

 

          La scala de li strozzi                                      26 aprile 1834

 

Caro lei, va a ttentà li capoccioni,

e ffiotta poi si jj’ariessce male?!

Cqua ppe sti ggiri sce so le su’ scale

come da le suffitte a li portoni.                                                4

 

Offerenno zecchini e ddobboloni

addrittura ar zoggetto principale

che ttiè in mano la penna ar Cardinale,

c’è dd’abbuscasse un carcio a li cojjoni.                                8

 

Er Zegretàr-de-Stato ha er zu’ mezzano:

questo ha er zuo: l’antro un antro; e la strozzata

s’ha da spiggne a l’inzù dde mano in mano.             11

 

Er più ggrosso, se sa, nnaturarmente

se vò ssempre tené a la riparata

de poté ddì cche nnun ha avuto ggnente.

 

                       

 

La lunga trafila delle bustarelle

 

Caro lei, lei cerca di corrompere le personalità più potenti e poi si lamenta se le va male?! (L’autore si rivolge ad una persona che ha tentato, con esito negativo, di corrompere un potente). Qua per questi intrighi, per questi maneggi, ci sono le loro scale come dai portoni si va alle soffitte. Offrendo tante monete di valore addirittura al soggetto principale, al funzionario più importante, quello che può tutto e fa tutto, quello che decide per il Cardinale, che ne fa le veci e che agisce veramente, c’è da prendere un calcio nei coglioni. Il Segretario di Stato ha il suo mediatore: questo ha il suo: l’altro ha un altro; e la bustarella è da spingere all’in su, di mano in mano. Il funzionario più potente, si sa, naturalmente si vuol sempre tenere al coperto, non vuol comparire di persona nei traffici illeciti, e vuol poter dichiarare che mai ha preso alcunché.

 

Metro: sonetto (ABBA, ABBA, CDC, EDE).

 

Le quartine. Mirabile evidenza fantastica: i ggiri, le scale (v. 3) sono metafore che indicano i tragitti e le trafile che la tangente compie prima di giungere al suo ultimo destinatario ma anche i percorsi nei corridoi dei palazzi romani, lungo le scale che salgono a spirale fino agli uffici dei più potenti burocrati (per un lettore del ‘900 i labirinti del Processo di Kafka). Ma si noti anche l’amara pacatezza con cui Belli descrive una condizione (la necessità della corruzione, la necessità di conoscerne le procedure, i labirinti della burocrazia romana) che nell’ottica della voce narrante appare eterna e che al poeta doveva almeno apparire frutto di un malcostume che si era sedimentato nei secoli. “Così va il mondo… o meglio così andava nel secolo decimo nono”. La rima in A è mirabile: “li capoccioni, li portoni, li dobboloni, li cojoni”; le case dei potenti, i denari della corruzione, la botta nei testicoli, il lamento dei tartassati.

Le terzine. Si noti con quale evidenza fantastica l’immagine allusiva prende corpo in una scala vera di palazzo romano che, con giri interminabili, scende dalle soffitte fino al portone. E così di mano in mano la tangente scompare e il potente si mette al sicuro riparo. E “la strozzata” (v. 10) “se vò ssempre tené a la riparata” (v. 13). La rima in C, fittamente assonantizzata, è straripante: er mezzano del Zegretàr-de-Stato, l’antro un antro, de mano in mano. Così la Roma gerarchica e potente diventa trascurata e plebea, sfacciata e violenta. La città di Belli è luogo comune del male civico, della plebe che non riesce a farsi popolo, della classe dirigente che non dirige ma sfrutta e spadroneggia.

 

Nello stesso giorno il nostro poeta aveva scritto questi due sonetti, allargando la denuncia anche al sistema delle indulgenze, operosissimo in città:

 

La messa de san Lorenzo (I)                        26 aprile 1834

 

Un giorno, a Ssan Lorenzo, entrò un ziggnore

e aggnéde in zagristia co un colonnato,

acciò un prete ciavessi celebbrato

una messa d’un scudo de valore.                                             4

 

Er prete in ner momento fu ttrovato:

la messa se cantò a l’artar-maggiore;

e un’anima purgante ebbe l’onore

de volà in paradiso a bommercato.                                        8

 

Ma appena er prete se cacciò la vesta,

accortose la piastra ch’era farza,

attaccò un Cristo, e ffece una protesta.                                 11

 

E l’anima sarvata ebbe er martorio,

stante la messa che nun j’era varza,

de tornassene addietro in purgatorio.

 

Un giorno, nella basilica di S. Lorenzo fuori delle mura, entrò un signore che andò in sagrestia con uno scudo d’argento, affinché un prete avesse celebrato una messa che avesse il valore d’uno scudo. Subito il prete fu trovato; la messa fu cantata e celebrata all’altare maggiore (messa solenne, quindi); e un’anima che stava in purgatorio ebbe l’onore di volare in paradiso seduta stante e a buon mercato (questa basilica, come altre a Roma, aveva il privilegio di liberare illico et immediate un’anima dal purgatorio per ogni messa di uno scudo d’elemosina). Ma il prete si era appena svestito della pianeta che si accorse che la moneta era falsa, allora bestemmiò Gesù Cristo e protestò. E l’anima appena salvata ebbe il martirio, poiché la messa non aveva avuto valore, di tornarsene indietro in purgatorio.

 

La messa de San Lorenzo  (II)

 

“Dico, vorebbe fàvve dì una messa

pell’anima de tata poverello:

ma un scudo sano nun ce l’ho, e ppe quello

‘na mezza-piastra nun ve viè l’istessa?”.                                           4

 

“Mezza-piastra?!”, risponne Don Marcello:

“ma come vòi che un’anima sii messa

in paradiso pe ‘na calla lessa?

No, proprio nun ze po’, core mio bello”.                                            8

 

Dico: “Andiamo, la pago du’ testoni”.

Dice: “Fijo, assicurete ch’è ppoco,

e nemmanco j’uprimo li portoni”.                                                        11

“Via”, dico, “un antro giulio”. Lui allora

me concruse cor dì che da quer foco

pe men d’un scudo nun ze scappa fora.                                             14

 

Io dico: “vorrei farvi dire una messa per l’anima di mio padre poverello: ma uno scudo intero non ce l’ho, e per la messa un mezzo scudo d’argento non fa per voi lo stesso?”. “Mezza piastra?”, risponde Don Marcello, “ma come vuoi che un’anima sia portata in paradiso per un nonnulla? No, proprio non si può, cuore mio bello”. Dico: “Andiamo” (si noti l’ostentazione del bel parlare), “le pago due testoni” (era una moneta d’argento da tre paoli). Il prete dice: “Figlio caro, stai sicuro che è poco, manco le apriamo i portoni”. “Via”, aggiungo, “un altro paolo”. Lui allora mi finì col dire che da quel fuoco del purgatorio per meno d’uno scudo non si riesce a venir fuori.

 

                                                                       Gennaro  Cucciniello