Belli. Sonetti. La cassa der Lotto, 10 gennaio 1834
La Roma raccontata dal Belli è la Roma dei sei papi che regnarono nei settantadue anni (1791-1863) nei quali egli visse, anni di enormi agitazioni, di grandi rivoluzioni politiche, di un frenetico andirivieni tra occupazioni militari e restaurazioni, in una città sordida e spopolata, abitata da plebi –con quelle di Napoli- tra le più incolte e ciniche che ci fossero allora in Italia. Il poeta ritrae questa città che si lascia vivere con indolenza mentre si diffonde la consapevolezza che lo Stato della Chiesa è diventato ormai un anacronismo.
Già in un sonetto del 1832 (“Li punti d’oro”) Belli aveva scritto: “Cusì viengheno a dì li giacubini,/ ar gran sommo pontefice Grigorio:/”che te fai de li stati papalini,/ dove la vita tua pare un mortorio?”. Non fu così facile, comunque, liberarsi di questi “stati papalini”. Ancora nel 1862 trecento vescovi reclamarono che il potere temporale dei papi era una necessità voluta direttamente dalla Provvidenza divina (un parallelo blasfemo con il centro-destra italiano che, nel 2011, solennemente ha votato in Parlamento –per difendere la crapula di papi-Berlusconi- che la prostituta minorenne Ruby era nipote di Mubarak?). Affermazioni impegnative per questi vescovi, un anno dopo la proclamazione dell’Unità d’Italia.
Non si dimentichi che papa Gregorio XVI, che tanto piaceva a Belli, era il papa che nell’enciclica “Mirari vos” del 1832 aveva scritto tra l’altro: “E’ un vaneggiamento che ognuno debba avere libertà di coscienza, a questo nefasto errore conduce quell’inutile libertà d’opinione che imperversa ovunque”. “La sessantina di sonetti dedicati a questo papa rendono bene, nell’insieme, l’idea che il popolo romano poteva avere del papa-re: da una parte la fede cristiana, anche se spesso rappresentata dal poeta come superstizione, fa rimanere salda la componente religiosa della figura del papa, come successore di Pietro e Cristo in terra; ma i romani, proprio per la vicinanza fisica con l’uomo che ad un certo punto diventa papa e la diretta conoscenza dei meccanismi per nulla spirituali che lo portano all’elezione al pontificato, lo giudicano anche come individuo e lo temono come governante che impone le gabelle e commina le condanne, come capo della fatiscente società del putrido Stato pontificio”.
Alla fine, quando al soglio di Pietro salirà Pio IX – che si stava acquistando fama di “liberale”-, Belli –in un sonetto del gennaio 1847, scriverà un testo con un attacco grandiosamente reazionario: “No, sor Pio, pe’ smorzà le turbolenze,/ questo qui non è er modo e la magnera./ Voi, padre santo, nun n’avete cera,/ da fa’ er papa sarvanno le apparenze./ La sapeva Grigorio l’arte vera / de risponne da Papa a l’insolenze./ Vonno pane? Mannateje indurgenze;/ vonno posti? Impiegateli in galera”.
Nell’Introduzione alla sua opera Belli aveva spiegato i motivi che lo avevano spinto a scegliere per i suoi testi la forma del sonetto: egli voleva costruire tanti quadretti distinti, soprattutto per raggiungere due scopi: il lettore doveva accostarsi alla raccolta senza nessun impegno di dover continuare nella lettura; il poeta doveva usare una forma in sé conclusa in un veloce giro di versi, perché la realtà descritta si concentra tutta in brevi episodi, in azioni e battute di spirito, tanto più efficaci in quanto si esauriscono nel momento in cui sono colti.
Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio nei quali possono crescere le parole.
Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.
La cassa der Lotto 10 gennaio 1834
Sotto dell’antri Papi, er rimanente
C’avanzava a sta lupa de l’Impresa,
Lo faceva servì la Santa Chiesa
Pe lemosine a noi povera gente. 4
Ma, a giorni nostri, un Papa ppiù cremente,
Dicenno c’a la Cammera je pesa
D’avé da seguità ttutta sta spesa,
Serra le porte e nun vò dà ppiù gnente. 8
Ecco la carità de sto Governo,
Eccola la giustizia che ss’inzeggna
Da sti diavoli esciti da l’Inferno. 11
Tutto se scola sta Fajola indeggna.
Tutto qua sse pricìpita in eterno
Ner pozzo de la gola e de la freggna. 14
Metro: sonetto (ABBA, ABBA, CDC, DCD).
La cassa del Lotto
Sotto il governo degli altri Papi, quello che avanzava a questa lupa dell’Impresa pontificia dei Lotti la Santa Chiesa lo utilizzava per dare elemosine a noi, povera gente. Ma, ai tempi nostri (cioè sotto il pontificato di Gregorio XVI), un Papa più clemente, dicendo che alla Camera Apostolica (che amministra le finanze pontificie) pesa il dover continuare in questa pratica, chiude le porte e non vuol più dare niente ai poveri. Ecco la carità di questo Governo. Ecco la giustizia che viene insegnata e praticata da questi diavoli usciti dall’Inferno. Tutto viene scolato da questa indegna Fajola (La Fajola era una grande foresta, nido e ricettacolo di briganti: per questo era detta casa di ladri). In questo Stato tutto precipita in eterno nel pozzo della gola e della fica.
Le quartine.
In questi otto versi c’è l’antefatto di cronaca: un provvedimento finanziario del governo pontificio che elimina una pratica degli anni precedenti, la distribuzione in elemosine di una parte degli utili del gioco del lotto. Sono le rime a dare il senso compiuto della denuncia del nostro osservatore. La rima in A è esplicita: er rimanente, a noi povera gente, er Papa ppiù cremente, nun vò dà ppiù gnente. Dall’altra parte la rima in B contraccambia: a la Cammera je pesa, ttutta sta spesa, a sta lupa de l’Impresa, la santa Chiesa. Per ora domina il trinomio gioco-finanza-religione sullo sfondo di una Roma, città plebea, che è fatta di gente comune che non ha soldi e ne cerca, che è subalterna ma sa denunciare. Fatti e idee sono serrati in uno stampo narrativo moderno, laconico e incalzante.
Le terzine.
Dalla cronaca si passa all’invettiva e l’immagine metaforica del v. 14 ha davvero accenti danteschi e savonaroliani. E anche qui le rime sono esaustive: quella in C (governo, inferno, in eterno) sembra rassegnata a subire un dominio assoluto; quella in D (ss’inzegna, indeggna, freggna), scaraventata ner pozzo de la gola, chiude drammaticamente la denuncia con toni quasi apocalittici. Ora il trinomio è diventato sesso-gioco e religione, un trinomio che si spiega e si giustifica perché rappresenta i bisogni elementari e ineliminabili della vita in una circolarità infinita e obbligata tra materia e spirito. Belli ci ripete che a Roma il sesso domina la vita degli uomini fino a diventare una disperata fobia.
Due giorni dopo, il 12 gennaio 1834, Belli ricorda alcuni fatti di tre anni prima:
L’Ottobbre der ‘31
Come! E in un tempo de tanto fraggello,
Che, si ridemo noi, puro è dilitto,
Er Papa che sse stampa accusì affritto,
Se ne va intanto a villeggià a Castello! 4
Mentr’er tesorierato è ttanto guitto
Che nun c’è in cassa manco un quadrinello,
Là sse spenne mijara a rifà bello
Tutto er palazzo, e ‘r monno ha da stà zitto! 8
Dove cime de Papi hanno passate
Tante staggione cor mobbijo vecchio,
Nun po’ sta chi pper dio jeri era frate! 11
Romani mii, specchiateve in sto specchio
E capite che ttutte le scimmiate
Che ffa lui, so bucìe da mozzorecchio.
L’Ottobre del 1831
Come! E questo avviene in un tempo così calamitoso che, se ridiamo noi, pure è ritenuto un delitto (il 1831 vide molte rivolte politiche), il Papa, che in tanti editti a stampa si dice così afflitto e in cordoglio, intanto se ne va in villeggiatura a Castel Gandolfo! Mentre il Tesoro pontificio è tanto miserello e dice che non c’è in cassa nemmeno un quattrinella, lì si spendono migliaia di quattrini a rifare bello tutto il Palazzo papale, e il mondo deve stare in silenzio! Dove tanti papi importanti hanno trascorso tante stagioni col mobilio vecchio, non può stare, per dio, chi ieri era frate (papa Gregorio XVI era monaco)! Romani miei, specchiatevi in questo specchio e capite così che tutte le azioni sceniche che fa lui sono bugie da avvocati bugiardi.
Gennaro Cucciniello