Il Movimento 5 Stelle deve decidere di uscire dalla pubertà

Se il Movimento 5 Stelle esce dalla pubertà

 

Massimo Recalcati ha scritto questo articolo il 23 agosto 2019, all’indomani delle funamboliche giornate seguite alla crisi del governo 5Stelle-Lega. Io scrivo questo commento il 24 ottobre 2019, circa due mesi dopo. Le vicende intervenute in questo lasso di tempo confermano in pieno l’analisi di Recalcati. Il cambio del partner di governo, dalla Lega al Pd, avrebbe dovuto obbligare il M5S a decidere cosa vuole essere nella realtà: se restare un movimento di protesta anti-establishment o diventare un partito veramente di governo, posizionato dalle elezioni del marzo 2018 al centro del sistema politico. Lo sostiene anche Piero Ignazi in una sua riflessione: anche se ha governato con Salvini per più di un anno, in realtà il M5S in tutto questo tempo ha continuato a considerarsi estraneo rispetto al sistema. Proprio perché erano in alleanza con la Lega, altro partito che accetta con riserva le regole del gioco e anzi si dimostra propenso a forzarle ad ogni occasione, in attesa della spallata finale, i grillini hanno potuto sentirsi una componente ancora non riconducibile alle logiche del sistema.

Poi, i rubli di Mosca, le sconfitte alle elezioni regionali, l’umiliante sorpasso della Lega alle elezioni europee, il Papeete, la richiesta salviniana dei pieni poteri hanno rotto lo schema, e –d’improvviso- è avvenuta la svolta in Europa: il M5S ha votato la fiducia a Ursula von der Leyen e alla sua maggioranza europeista, dimenticando con disinvoltura l’abbraccio di qualche mese prima ai gilet gialli francesi e ai loro sommovimenti pseudo-rivoluzionari. Si è fatto il governo Conte 2: l’accordo con il Pd, cioè l’espressione più compiuta della tradizione repubblicana e democratica, obbligherebbe ora il M5S a qualificarsi anch’esso come un partito pienamente inserito nel sistema. Beppe Grillo ha favorito questo passaggio quando ha parlato della “necessità di cambiare in quanto non siamo più gli stessi di dieci anni fa”. Ma Di Maio recalcitra ad accettare la nuova maggioranza, rallenta e ostacola quanto più possibile l’intesa con il Pd e Leu. Il suo cuore batte ancora per Salvini (scrive Ignazi). Niente tasse, niente regole, niente Stato, in linea con la protesta anti-sistemica del Nord leghista, con un fondo di lazzaronismo meridionale. Se l’intero movimento grillino segue Di Maio su questa strada, allora questo secondo governo Conte – sul filo del rasoio, litigioso e diviso su più fronti- non potrà durare a lungo perché rappresenterebbe la negazione di questa visione.

Per anni i capi 5 Stelle hanno detto che il loro Movimento era l’argine contro l’avvento della Destra estrema. Nel 2018 hanno fatto il governo con la Lega e così il Movimento è diventato l’incubatore del successo di Salvini: sul tema dell’immigrazione e accreditando la Lega come partito nuovo e anti-sistema. Un governo con il più vecchio partito italiano (1989), guidato ora da una vecchia volpe (Salvini è entrato nella Lega nel 1991, come giovane comunista padano, guarda un po’!), invischiato in scandali e ruberie, chiamato con un bel coraggio “il governo del cambiamento”.

Nelle prossime settimane il presidente del Consiglio sarà costretto a guadagnarsi interamente la leadership del M5S e a convincere i suoi almeno a fingere di diventare democristiani. Ora il governo si trova in una situazione davvero fastidiosa, sottoposto com’è al logorio di un Renzi vanitoso che punta comodamente a non verificare il proprio consenso per un paio di anni e a quello di un Di Maio che si sente stracotto. Non si può garantire a questi due figuri la rendita di un governo, già fragile di suo, che si può attaccare, minare, indebolire, tanto non c’è il rischio del voto. Manca un serio blocco sociale di riferimento, manca una cultura politica di valori comuni, manca un sistema istituzionale coerente, c’è la replica aggiornata del trasformismo e del notabilato. Può il Pd continuare a votare, mantenere e difendere tutti i provvedimenti-bandiera del precedente esecutivo (comprese le bandiere di Salvini)? Non ci si rende conto che il grillismo di governo non funziona, qualsiasi sia il suo alleato, prima la Lega, ora il Pd? Il governo è come un campo di battaglia in cui piantare le bandierine e può essere fatto cadere da chiunque, bastano cinque senatori. Risse domenicali. Ultimatum infrasettimanali. Avvisi di sfratto prefestivi. 5 Stelle e Italia Viva intenti a fare e disfare, rimandare, dilazionare, paralizzare, oppure tagliare, smontare, far saltare. Si vada a votare e si vedrà quanto vale Renzi e quanto vale Di Maio.  Mi arrendo all’evidenza che ci sarà una prevalenza elettorale della destra. Salvini vince? Ma su quale linea governerà?

                                                                  Gennaro  Cucciniello

 

L’epilogo della crisi di governo ha un sapore felliniano: la maschera di Zorro, il giustiziere mascherato, che si scioglie come cera in una festa di carnevale finita male (ricordate l’Alberto Sordi dei “Vitelloni”?). L’imprevista solitudine politica di Salvini come cifra di una ambizione cieca che, come spesso accade, genera attorno a se stessa solo il vuoto.

Ma in questo scenario non può non colpire la metamorfosi comportamentale e psicologica in atto nel M5S. Evaporato nel giro di un anno il sodalizio contrattuale populista con i leghisti, il movimento si trova oggi, gioco forza, ad assumere una postura decisamente inusuale. I suoi rappresentanti parlamentari non sono più gli antagonisti irriducibili delle istituzioni ontologicamente marce nel nome del popolo, ma si trovano a farsi strenui difensori delle istituzioni aggredite dai fendenti scomposti di uno Zorro disperato che invoca alle sue spalle, come accadeva di fare a loro sino a poco tempo fa, il popolo ringhioso e fedele.

In gioco per il M5S è quello che accade sempre nel passaggio psicologico tra la pubertà e l’età adulta. Conosciamo la critica cieca e ostinata che il mondo degli adolescenti rivolge a quello degli adulti. Il M5S ha assunto questa postura di fondo alla sua origine: la politica è in quanto tale corrotta, i politici, come gli adulti agli occhi dell’idealismo puberale dei figli adolescenti, sono tutti viziosi, marci, intaccati da cinismo e egoismo. L’insulto sfacciato, la critica virulenta, il disprezzo per le istituzioni e i suoi simboli che hanno caratterizzato questo movimento sino dai suoi esordi (tutte marche del fantasma puberale che li ha generati) deve oggi fare i conti con il passaggio alla responsabilità che comporta trovarsi dall’altra parte della barricata, a tutela di ciò che sino a poco tempo fa aggredivano. Ascoltare le dichiarazioni posate, serie, schierate convintamente in difesa delle istituzioni democratiche e delle loro procedure da parte dei dirigenti di questo movimento (Conte molto più che Di Maio) non può che colpire positivamente. Si tratta di una metamorfosi in atto? La stessa che un figlio deve compiere quando la prova di realtà lo costringe a non rinunciare ai propri sogni ma a trovare la strategia più adeguata per consentire la loro realizzazione, dato che il passaggio alla vita adulta coincida con la rassegnazione di fronte all’ordine costituito delle cose è ancora l’esito di una lettura solo puberale di questo passaggio.

Il capo politico del M5S, Luigi Di Maio, è stato il simbolo del tempo puberale del M5S. Non solo anagraficamente e biograficamente, ma soprattutto politicamente. Alimentando una politica dell’odio verso i suoi antagonisti ha scavato un fossato attorno al Movimento che rappresenta, consegnandolo al sovranismo di Salvini e cedendo su ogni passo del suo socio, inaffidabile e improbabile. In questo modo ha relegato il Movimento che aveva vinto le elezioni in una posizione politica minoritaria e impotente. Psicologicamente Di Maio si è rivelato totalmente imprigionato nel fantasma puberale: la sua innocenza ha coinciso con la sua supponenza anti-politica e la sua retorica populista ha consegnato il paese alle forze della reazione. L’epilogo di questa crisi di governo offre però al M5S la possibilità di un cambiamento radicale di direzione.

Le parole di Conte in Senato non sono state solo delle sferzate all’anti-istituzionalismo di Salvini e alla sua vocazione autoritaria, ma anche un ammonimento per il futuro del M5S. Si tratta di un compito difficile, di una vera e propria muta identificatoria; le identificazioni al partito anti-casta, anti-parlamentare, anti-politico, anti-europeista, sono destinate a cadere. Il M5S farebbe bene a spogliarsi di quelle insegne identificatorie per valorizzarne altre che pure appartengono alla sua sfaccettata identità: la giustizia sociale, il lavoro, la lotta alla povertà, la tutela dell’ambiente. Ma questa valorizzazione non sarà possibile se non attraverso un suo profondo rinnovamento. A partire da chi lo rappresenta.

Il protagonista dell’accordo infausto con la Lega di Salvini, siglato nel nome del populismo e prigioniero del fantasma puberale dell’anti-politica, dovrebbe dimettersi come ha invocato che altri lo facessero all’indomani delle loro sconfitte politiche. E’ questa un’occasione unica per il M5S per ridefinire la propria identità. Perché non basta sapere contro chi si è per sapere chi si è. E’ questa un’altra illusione del mondo adolescenziale destinata, in questa penosa e preoccupante crisi di governo di metà agosto, a dissolversi nel passaggio alla vita adulta.

                                                                  Massimo Recalcati

 

(articolo di “Repubblica”, venerdì 23 agosto 2019, pag. 38)