Belli. Lo Stato pontificio. “Er deserto”. 26 marzo 1836. Un paesaggio di desolazione e di morte.

La “Commedia umana” di G. Gioacchino Belli. Lo Stato pontificio. “Er deserto”. 26 marzo 1836.

 La Roma raccontata dal Belli è la Roma dei sei papi che regnarono nei settantadue anni (1791-1863) nei quali egli visse, anni di enormi agitazioni, di grandi rivoluzioni politiche, di un frenetico andirivieni tra occupazioni militari e restaurazioni, in una città sordida e spopolata, abitata da plebi –con quelle di Napoli- tra le più incolte e ciniche che ci fossero allora in Italia. Il poeta ritrae questa città che si lascia vivere con indolenza mentre si diffonde la consapevolezza che lo Stato della Chiesa è diventato ormai un anacronismo.

Già in un sonetto del 1832 (“Li punti d’oro”) Belli scrive: “Cusì viengheno a dì li giacubini,/ ar gran sommo pontefice Grigorio:/”che te fai de li stati papalini,/ dove la vita tua pare un mortorio?”. Non fu così facile, comunque, liberarsi di questi “stati papalini”. Ancora nel 1862 trecento vescovi reclamarono che il potere temporale dei papi era una necessità voluta direttamente dalla Provvidenza divina (un parallelo blasfemo con il centro-destra italiano che, nel 2011, solennemente ha votato in Parlamento –per difendere la crapula di papi-Berlusconi- che la prostituta minorenne Ruby era nipote di Mubarak?). Affermazioni impegnative per questi vescovi, un anno dopo la proclamazione dell’Unità d’Italia.

Non si dimentichi che papa Gregorio XVI, che tanto piaceva a Belli, era il papa che nell’enciclica “Mirari vos” del 1832 aveva scritto tra l’altro: “E’ un vaneggiamento che ognuno debba avere libertà di coscienza, a questo nefasto errore conduce quell’inutile libertà d’opinione che imperversa ovunque”. “La sessantina di sonetti dedicati a questo papa rendono bene, nell’insieme, l’idea che il popolo romano poteva avere del papa-re: da una parte la fede cristiana, anche se spesso rappresentata dal poeta come superstizione, fa rimanere salda la componente religiosa della figura del papa, come successore di Pietro e Cristo in terra; ma i romani, proprio per la vicinanza fisica con l’uomo che ad un certo punto diventa papa e la diretta conoscenza dei meccanismi per nulla spirituali che lo portano all’elezione al pontificato, lo giudicano anche come individuo e lo temono come governante che impone le gabelle e commina le condanne, come capo della fatiscente società del putrido Stato pontificio”.

Alla fine, quando al soglio di Pietro salirà Pio IX – che si stava acquistando fama di “liberale”-, Belli –in un sonetto del gennaio 1847, scriverà un testo con un attacco grandiosamente reazionario: “No, sor Pio, pe’ smorzà le turbolenze,/ questo qui non è er modo e la magnera./ Voi, padre santo, nun n’avete cera,/ da fa’ er papa sarvanno le apparenze./ La sapeva Grigorio l’arte vera / de risponne da Papa a l’insolenze./ Vonno pane? Mannateje indurgenze;/ vonno posti? Impiegateli in galera”.

Nell’Introduzione alla sua opera Belli aveva spiegato i motivi che lo avevano spinto a scegliere per i suoi testi la forma del sonetto: egli voleva costruire tanti quadretti distinti, soprattutto per raggiungere due scopi: il lettore doveva accostarsi alla raccolta senza nessun impegno di dover continuare nella lettura; il poeta doveva usare una forma in sé conclusa in un veloce giro di versi, perché la realtà descritta si concentra tutta in brevi episodi, in azioni e battute di spirito, tanto più efficaci in quanto si esauriscono nel momento in cui sono colti.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio nei quali possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.

“Er deserto” 26 marzo 1836

 Dio me ne guardi, Cristo e la Madonna

d’annà ppiù ppe ggiuncata a sto precojjo.

Prima… che pposso dì?… pprima me vojjo

fà ccastrà dda un norcino a la Ritorna. |4

Fà ddiesci mijja a nun vedé una fronna!

Imbatte ammalappena in quarche scojjo!

Dapertutto un zilenzio com’un ojjo,

che ssi strilli nun c’è cchi tt’arisponna! |8

Dove te vorti una campaggna rasa

come sce sii passata la pianozza

senza manco l’impronta d’una casa! |11

L’unica cosa sola c’ho ttrovato

in tutt’er viaggio, è stata una bbarrozza

cor barrozzaro ggiù mmorto ammazzato. |14

Dio mi guardi, e invoco Cristo e la Madonna, di andare ancora a prendere la giuncata (latte coagulato) in questo recinto (una cascina in cui si tiene il bestiame, soprattutto ovino). Cosa posso dire? Preferirei piuttosto farmi castrare da un norcino (un castratore di maiali) al mercato della Rotonda (la piazza del Pantheon). Percorrere dieci miglia e non vedere un albero! Imbattersi appena in qualche rudere! Dappertutto un silenzio come una distesa d’olio, che se urli non c’è chi ti risponda. Ovunque ti volti vedi una campagna piatta come se ci fosse passata una pialla, senza nemmeno l’ombra di una casa. L’unica cosa sola che ho trovato in tutto il viaggio è stato un barroccio (un carro a due ruote trainato da buoi) col barrocciaio buttato per terra, morto ammazzato.

 Metro: sonetto (ABBA, ABBA, CDC, EDE).

 Le quartine. In netto contrasto con lo splendore e la vitalità cittadina la campagna che circondava Roma era una desolata e immensa distesa di latifondi. La miseria fastosa e barocca della città era preceduta, quando ci si avvicinava, dal senso di squallore e di desolato abbandono in cui era immersa la campagna circostante. E’ questo uno dei suoi rari sonetti paesaggistici, un testo alto e meditativo. Inizialmente si presenta come il resoconto di una sgradevole ma banale commissione (il protagonista è andato a comprare in campagna una specie di ricotta). Ma, man mano che si procede nella lettura, il tono si fa grave e l’impressione complessiva è quasi quella di una discesa nell’inferno dantesco. Anche la costruzione del testo si presenta come una discesa, sia nel tema che nello stile: si apre con una pittoresca invettiva contro lo squallore dell’agro romano e con la vivace immagine cittadina della Rotonda; segue, in un crescendo di desolazione e di sgomento, la descrizione della campagna; infine, in un’atmosfera di solitudine assoluta (unica cosa sola, v. 12), la vista del cadavere, ggiù mmorto ammazzato. Il progressivo addensarsi di un clima tragico è sottolineato dal crescente rallentamento del ritmo, determinato dall’inarcarsi del rapporto tra struttura metrica e struttura sintattica (enjambement nei vv. 1-2, 3-4, 9-10, 12-13-14).

Lo sgomento dell’io narrante è rivelato infatti dall’andamento frammentario del discorso: il terrore blocca la parola, condanna a una sorta di afasia, (prima… che pposso dì?, v. 3). Anche il riferimento alla castrazione, immagine iperbolica di impotenza, avverte il lettore che il viaggio è all’inferno. L’assenza di vita coinvolge tutte le forme viventi, piante e alberi compresi; solo rare rocce sterili. L’esplorazione dei luoghi è priva di sbocchi. Come in una scena biblica, l’uomo solo grida a gran voce nel deserto senza avere alcuna risposta.

La costruzione poetica è fitta di artifici interessanti: la sineddoche di fronna per albero v. 5), l’uso degli infiniti narrativi, l’andamento marcatamente paratattico, la paronomasia di casa-cosa (vv. 11-12), la sinestesia di silenzio (percezione uditiva) e di olio (visiva) nel verso 7, l’iterazione dello stesso concetto nel verso 12, tipica del linguaggio popolare, al fine di conferire maggiore efficacia all’espressione, l’assonanza desolata di “cosa – sola”.

L’ultima terzina. Il motivo della morte, preannunciato nelle strofe precedenti, si condensa in un’immagine di brutale violenza: il carrettiere assassinato. L’avverbio “ggiù”, collocato al centro dell’endecasillabo finale a marcare la pausa ritmica di cesura, suggerisce di considerare il morto come un oggetto inanimato, degradato allo stato di cosa (v. 10).  La decisa cesura dell’avverbio fornisce la realistica sensazione dello schianto e insieme dell’inerzia di quel cadavere (Belli era tutt’altro che insensibile all’espressione e all’efficacia dei valori fonici). Nel verso 14, “mmorto ammazzato” è nome composto che va pronunciato come fosse una parola sola, aggiungendo un di più alle allitterazioni pesanti (la “r” di barrozzaro, la “m” di morto ammazzato) e ai raddoppi di consonante.

Le terre dell’agro romano appartenevano a pochi latifondisti, scarsamente interessati ad uno sfruttamento più moderno e razionale dei loro possedimenti. Belli, con ammirevole abilità espressiva e rielaborando in modo personale motivi già appartenuti alla poesia civile della fine del ‘700, non usa i toni declamatori della protesta pubblica ma –sinceramente indignato- denuncia lo stato di abbandono in cui versavano i territori pontifici. Questa campagna è un metaforico deserto di speranza e di vita: eppure, per notare un contrasto emblematico, tanto esaltata dagli intellettuali e dagli artisti in nome del “pittoresco e del sublime”. Nel nostro poeta, invece, non c’è più alcuno scompenso tra elementi descrittivi ed indignazione sociale e morale: lo spettacolo di desolazione è dominato dal grido senza risposta e dall’immagine corposa del barroccio abbandonato con il cadavere sul terreno.

Poco più di dieci anni dopo, il 15 aprile 1846, a riprova che nulla era cambiato in tutto questo periodo Belli scriverà:

Li malincontri

M’aricordo quann’ero piccinino

che Ttata me portava for de porta

a riccoje er grespigno, e quarche vorta

a rinfrescacce co un bicchier de vino.  |4

Be’, un giorno pe la strada de la Storta,

dov’è quelo sfasciume d’un casino,

ce trovassimo stesa lì vicino

tra un orticheto una regazza morta. |8

Tata, ar vedella lì a ppanza per aria

piena de sangue e co ‘no squarcio in gola,

fece un strillo e ppijò l’erba fumaria. |11

E io, sibbé ttant’anni sò ppassati,

nun ho ppotuto ppiù ssentì pparola

de girà ppe li loghi scampaggnati. |14

I cattivi incontri

Mi ricordo che quando ero piccolino papà mi portava fuori porta a raccogliere la cicerbita, e qualche volta ci rinfrescavamo con un bicchiere di vino. Be’, un giorno sulla strada della Storta, località sulla via Cassia, vicino a un casolare rotto e abbandonato, trovammo stesa lì vicino in un orticaio una ragazza morta. Il babbo, al vederla lì con la pancia per aria piena di sangue e con la gola squarciata, emise un urlo e scappò via. E io, sebbene sono passati tanti anni, non ho potuto più sentir parlare di andare in giro in aperta campagna.

 Nel 1777 Vittorio Alfieri, in occasione di un viaggio nello Stato pontificio, aveva scritto il sonetto “Lo Stato romano”. Lo propongo per un utile confronto.

Vuota insalubre region che stato

ti vai nomando, aridi campi incolti;

squallidi oppressi estenuati volti

di popol rio codardo e insanguinato; |4

prepotente e non libero senato

di vili astuti in lucid’ostro involti;

ricchi patrizi, e più che ricchi, stolti;

prence, cui fa sciocchezza altrui, beato; |8

città, non cittadini; angusti tempi,

religion non già; leggi che ingiuste

ogni lustro cangiar si vede, ma in peggio; |11

chiavi, che compre un dì schiudeste agli empi

del ciel le porte, or per età vetuste:

oh! Se’ tu Roma, e d’ogni vizio il seggio.  |14

Vuota e insalubre regione che vuoi chiamarti Stato, campi aridi e incolti, visi squallidi oppressi disfatti di un popolo malvagio vile e che si è macchiato di sangue; la Reverenda Camera apostolica, organo di governo dello Stato pontificio, prepotente arrogante e non libera, composta da personaggi vili astuti ammantati nella porpora lucente; patrizi ricchi ma, più che ricchi, stupidi; un principe (il papa) reso beato dalla stoltezza generale; c’è una città ma non ci sono cittadini; chiese anguste, senza religione; leggi che cambiano ogni cinque anni e sempre in peggio, sempre più ingiuste; chiavi comprate, corrotte con il denaro e che un tempo aprirono le porte del cielo ai sacrileghi (la Chiesa è accusata di avere rinnegato la povertà evangelica per un’immorale ricerca di potere e di ricchezza), ora sono diventate impotenti. Oh, sei tu Roma la sede di ogni vizio.

Gennaro Cucciniello