La “Commedia umana” di G. Gioacchino Belli. La Politica. “L’ubbidienza”, 12 settembre 1835
Quale prefazione riporto una lucida analisi di R. Marchi: “Per Belli, a differenza del Porta, il romanesco impiegato nelle poesie è uno strumento letterariamente vergine, che per la prima volta (al di là della tradizione popolare degli stornelli, delle pasquinate, della poesia sguaiatamente comica) viene elevato a lingua della “verità”, veicolo privilegiato per i contenuti semplici, umili, spesso brutali di una classe sociale diseredata e vessata da secoli di governo papale. L’assenza di una codificazione letteraria (ma anche più semplicemente grammaticale) del romanesco consente allo scrittore di ottenere un effetto di particolare immediatezza espressiva. La lingua appare quindi una risorsa preziosa per testimoniare senza diaframmi culturali o ideologici un mondo emarginato e sconosciuto ai più. Il suo messaggio è pervaso di rinuncia, di polemica sfiducia nelle sorti dell’uomo, di ribellione senza sbocco possibile. Facendo parlare direttamente i personaggi (uomini di malaffare, donne sfortunate o perdute, prelati disinvolti e maneggioni, emarginati sociali) Belli, oltre a darci una complessa immagine di quel sottobosco sociale, esprime –dietro il velo di quelle voci acri o semplici- anche il senso forse più profondo della sua riflessione.
“La parola, così, esprime la risposta che non ammette repliche e annichilisce l’interlocutore, diventa lo strumento che mette a nudo l’ipocrisia di un comportamento o di una situazione, è l’arma con la quale il popolano dimostra di cogliere, pur nella sua rozzezza, la vera sostanza delle strutture politiche, sociali e ideologiche che lo circondano e lo opprimono. Una gran parte dei sonetti è dedicata alla rappresentazione dei molteplici personaggi che popolano le vie e le piazze di Roma: l’autore non li descrive ma li fa parlare; essi raccontano un fatto accaduto o dialogano tra loro, ma il più delle volte con un interlocutore muto che può essere la moglie, il figlio, l’amico o il compagno di osteria. Sfilano così sotto gli occhi di noi lettori vetturini e artigiani, accattoni e prostitute, mariti traditi e guappi di quartiere”.
La critica ha potuto parlare della sua opera come dell’espressione della crisi di una cultura borghese moderna in uno Stato, come quello della Chiesa, ancora privo di una vera classe borghese, diviso nella schematica opposizione tra nobiltà ecclesiastica e popolo diseredato. Nella poesia di Belli si trova quindi descritta una situazione sociale e culturale unica nella storia europea: il contrasto fra la Roma tesoro di antichità, meta di viaggio degli intellettuali di tutta Europa che vi cercavano le vestigia della grandezza di un tempo, la Roma “città sacra” e cuore della cristianità, e la Roma plebea, priva di strutture economiche e sociali moderne, profondamente provinciale, inconsapevolmente decadente. Nonostante Belli non esibisca il dolore sociale per pronunziare una impegnativa condanna politica nondimeno in questa commedia umana rappresentata ai suoi livelli più infimi si avverte la presenza della riflessione razionalista e pessimista dell’intellettuale formatosi soprattutto sulla scorta del pensiero illuminista. La stessa struttura dei suoi “Sonetti” ne testimonia l’emblematicità: l’autore non li aggregò infatti secondo un ordito narrativo e strutturale definito. La serie vive, in cadenza cronologica, della complessità e caoticità della vita che anima la Città Eterna. Fuori da qualsiasi costruzione preordinata, trionfano così il dialogo o il monologo, con cui gli stessi personaggi si rappresentano e si impongono sulla scena della vita (letteraria) per un breve momento, rivelando la felice attitudine del poeta alla resa scenica, teatrale degli episodi”, dimostrando la sua capacità e volontà di ubbidire al dettato dantesco: “forti cose a pensare mettere in versi” (Purgatorio, XXIX, 42).
Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”.
Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.
“L’ubbidienza” 12 settembre 1835
Nò, vveh, cristiani, nun è vvero mica
che ppe ubbidì cce vò ttanta pazienza.
E’ un gran riposo all’omo l’ubbidienza;
e ppe cquesto in ner monno è ccusì antica. 4
Ma ssentite, ch’Iddio ve bbenedica,
che bbella verità: er Zovrano penza,
e er zuddito esiguissce; e in conzeguenza
oggnuno fa ppe ssé mmezza fatica. 8
E a cchi de noi sarìa venuto in testa
de pagà la dativa aridoppiata
si er Papa nun penzava puro questa? 11
Un essempio e ffinisco. Ar teatrino
chi la sostiè la parte ppiù ssudata?
Dite, er burattinaro o er burattino? 14
No, cristiani, non è vero per niente che per ubbidire ci vuole tanta pazienza. Per l’uomo è un gran riposo l’ubbidienza, e per questo èssa è nel mondo così antica. Ma, che Dio vi benedica, state a sentire questa bella verità: Il Sovrano pensa, il suddito esegue, e in conseguenza di ciò ognuno dei due non fa una fatica intera, bensì mezza fatica. A chi di noi sarebbe venuto in mente di far pagare, raddoppiata, la tassa su terreni e fabbricati se il Papa non la pensava? Ancora un esempio. Nel teatro chi sostiene la parte più faticosa? Ditelo, il burattinaio o il burattino?
Metro: sonetto (ABBA, ABBA, CDC, EDE).
Le quartine. Il testo ha un carattere dialogico: sembra un discorso rivolto a degli interlocutori che non sono poveri plebei. L’autore è immerso, accalorato, in una discussione accesa ma che si sviluppa su tematiche impegnative. Nei primi otto versi il sonetto si propone come un’arringa in difesa della divisione gerarchica della società, con i sovrani che pensano e i sudditi che eseguono. Ma se prestiamo attenzione alla rima, quella in B (pazienza-ubbidienza), ci accorgiamo che Belli comincia a far filtrare comicamente una luce sull’evidente ingiustizia, evidenziata dalla rima in A (Iddio ve benedica-oggnuno fa ppe ssé mezza fatica).
Le terzine. Ora l’ironia si sviluppa su livelli di crescente intensità: dall’enunciazione sardonica della bella verità (ubbidire è un gran riposo) (vv. 1-8), si passa al sarcasmo (vv. 9-11) –il papa pensa a raddoppiare le tasse e i sudditi sono costretti a pagarle: ammirevole esempio di equa divisione dei compiti-, per giungere infine all’analogia paradossale (vv. 12-14) tra la vita e il teatro dei burattini, con la rima in E (teatrino-burattino) che pone il sigillo della recita in maschera (illuminismo scettico e insieme passionale) alla serrata enunciazione.
In questi versi Belli si rivela osservatore critico della vita quotidiana romana, potremmo quasi definirlo un rigattiere ironico della contemporaneità, inventore di un tono tragicomico e pensoso. La Roma del nostro poeta è il luogo comune del male civico, di una plebe che non si è fatta popolo, di una classe dirigente che non dirige ma spadroneggia impunita.
Mi piace concludere riportando un testo, sul teatro. Belli, il 10 febbraio 1833, scrive questo sonetto. Ecco le buone disposizioni dei governanti pontifici. Ecco le reazioni, con le solite bestemmie e parolacce, del popolino. Nulla cambia.
Er Carnovale der Trentatrè 10 febbraio 1833
Zitti: vò morì er diavolo! Er Governo
Ce ne manna una bona arfinamente.
Eppoi dite ch’er Papa è un accidente,
Un Neronaccio, un Zènica, un Liunferno.
Ce saranno le maschere, ugualmente
Che ssott’all’antri papi se vederno…
Come?! ch’è stato?! Oh corpo de l’inferno!
L’editto nun viè ppiù?! nun c’è ppiù gnente?!
Ah gricio, rafacano, pataccone!
Quello ch’è oggi nun è ppiù domani!
Ah Ppapa de du’ facce pasticcione!
Figùrete a sta nova li Romani!
Le biastime se spregheno. Uh bastone,
Che pperdi tempo immezzo de li cani!
State zitti: il diavolo vuol morire! Il Governo finalmente emana un buon decreto. E poi dite accidenti al Papa, dite che è un Neronaccio, un Seneca (messo tra le incarnazioni diaboliche forse proprio per i suoi rapporti con Nerone), un Oloferne. Saranno permesse le maschere, proprio come se ne videro sotto i papi precedenti. Come? Che è stato? Oh, corpo dell’inferno. L’editto non viene più emesso? (in realtà il governo pontificio cercava tutti i pretesti per annullare o restringere il carnevale, per timore di ribellioni. Nel 1833, tuttavia, il carnevale fu permesso, ma per soli 7 giorni). Non c’è più niente? Ah, venditore di orzo (questi venditori erano spesso friulani, compaesani perciò di Gregorio XVI, nativo di Belluno), persona gretta, goffaccio (con probabile allusione al naso voluminoso del papa). Quello che oggi è promesso, non vale più domani? Ah, papa, che hai due facce! Figurati, ora, come reagiranno i romani a questa notizia! Le bestemmie si sprecano. Uh, bastone, che perdi il tuo tempo a bastonare i cani!
Gennaro Cucciniello