Belli. Lo Stato pontificio. “Er trionfo de la riliggione”, 27 gennaio 1832

 

La “Commedia umana” di G. Gioacchino Belli. “Lo Stato Pontificio”. 2- “Er trionfo de la riliggione”

 

 

La Roma raccontata dal Belli è la Roma dei sei papi che regnarono nei settantadue anni (1791-1863) nei quali egli visse, anni di enormi agitazioni, di grandi rivoluzioni politiche, di un frenetico andirivieni tra occupazioni militari e restaurazioni, in una città sordida e spopolata, abitata da plebi –con quelle di Napoli- tra le più incolte e ciniche che ci fossero allora in Italia. Il poeta ritrae questa città che si lascia vivere con indolenza mentre si diffonde la consapevolezza che lo Stato della Chiesa è diventato ormai un anacronismo.

Già in un sonetto del 1832 (“Li punti d’oro”) Belli aveva scritto: “Cusì viengheno a dì li giacubini,/ ar gran sommo pontefice Grigorio:/”che te fai de li stati papalini,/ dove la vita tua pare un mortorio?”. Non fu così facile, comunque, liberarsi di questi “stati papalini”. Ancora nel 1862 trecento vescovi reclamarono che il potere temporale dei papi era una necessità voluta direttamente dalla Provvidenza divina (un parallelo blasfemo con il centro-destra italiano che, nel 2011, solennemente ha votato in Parlamento –per difendere la crapula di papi-Berlusconi- che la prostituta minorenne Ruby era nipote di Mubarak?). Affermazioni impegnative per questi vescovi, un anno dopo la proclamazione dell’Unità d’Italia.

Non si dimentichi che papa Gregorio XVI, che tanto piaceva a Belli, era il papa che nell’enciclica “Mirari vos” del 1832 aveva scritto tra l’altro: “E’ un vaneggiamento che ognuno debba avere libertà di coscienza, a questo nefasto errore conduce quell’inutile libertà d’opinione che imperversa ovunque”. “La sessantina di sonetti dedicati a questo papa rendono bene, nell’insieme, l’idea che il popolo romano poteva avere del papa-re: da una parte la fede cristiana, anche se spesso rappresentata dal poeta come superstizione, fa rimanere salda la componente religiosa della figura del papa, come successore di Pietro e Cristo in terra; ma i romani, proprio per la vicinanza fisica con l’uomo che ad un certo punto diventa papa e la diretta conoscenza dei meccanismi per nulla spirituali che lo portano all’elezione al pontificato, lo giudicano anche come individuo e lo temono come governante che impone le gabelle e commina le condanne, come capo della fatiscente società del putrido Stato pontificio”.

Alla fine, quando al soglio di Pietro salirà Pio IX – che si stava acquistando fama di “liberale”-, Belli –in un sonetto del gennaio 1847, scriverà un testo con un attacco grandiosamente reazionario: “No, sor Pio, pe’ smorzà le turbolenze,/ questo qui non è er modo e la magnera./ Voi, padre santo, nun n’avete cera,/ da fa’ er papa sarvanno le apparenze./ La sapeva Grigorio l’arte vera / de risponne da Papa a l’insolenze./ Vonno pane? Mannateje indurgenze;/ vonno posti? Impiegateli in galera”.

Nell’Introduzione alla sua opera Belli aveva spiegato i motivi che lo avevano spinto a scegliere per i suoi testi la forma del sonetto: egli voleva costruire tanti quadretti distinti, soprattutto per raggiungere due scopi: il lettore doveva accostarsi alla raccolta senza nessun impegno di dover continuare nella lettura; il poeta doveva usare una forma in sé conclusa in un veloce giro di versi, perché la realtà descritta si concentra tutta in brevi episodi, in azioni e battute di spirito, tanto più efficaci in quanto si esauriscono nel momento in cui sono colti.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio nei quali possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.

“ Er trionfo de la riliggione” 27 gennaio 1832

Cuer giorno che vvoleveno sti cani

levà ar Zommo Pontescife lo sscetro,

Lui pe mmette coraggio a li Romani

fesce un giretto attorno de Sampietro. 4

Che vvòi vede sartà li Bborghisciani

sur cel der carrozzone, e avanti, e ddietro!,

e ppe rreliquia da bboni cristiani

staccajje ggiù ll’ottoni come vvetro! 8

Er Maggiordomo fesce a Ppidocchietto

che ddiede un bascio ar Papa: “Eh galantomo,

cuer culo a lo sportello è un po’ ttroppetto”. 11

E Ppidocchio, co ttutto er pavonazzo,

disse in cuer tuppetuppe ar Maggiordomo:

“Zitto llì vvoi che nun capite un cazzo!”

Il fatto di cronaca si era svolto il 21 febbraio 1831, all’indomani dell’elezione a pontefice di Gregorio XVI. Un corteo di popolani del quartiere di Monti, al grido di “Viva il papa!”, era giunto in massa fino a San Pietro acclamando il pontefice che usciva in carrozza e, staccati i cavalli, condusse la carrozza a braccia lungo il giro del colonnato del Bernini.

Quel giorno che questi cani di liberali ribelli giacobini volevano togliere il potere al Papa Sommo Pontefice, Lui per incoraggiare il popolo romano fece un piccolo giro intorno alla piazza di San Pietro. Avresti dovuto vedere gli abitanti di Borgo, quartiere presso il Vaticano, saltare sopra la gran carrozza, davanti e di dietro, e –da buoni cristiani- staccarle gli ottoni, come se fossero reliquie. Il Maggiordomo disse a Pidocchietto, un borghigiano distinto che si era spinto sino a baciare il papa: “Ehi, galantuomo, quel tuo culo allo sportello della carrozza è un po’ troppo”. E Pidocchio, nonostante l’abito paonazzo del gran prelato, senza portargli alcun rispetto, gli rispose in quella gran confusione: “Zitto voi che non capite un cazzo!”.

Metro: sonetto (ABAB, ABAB, CDC, EDE).

Le quartine. Da buon cronista Belli, in questi primi otto versi, definisce il contesto e inquadra la scena. Siamo all’indomani dell’elezione del nuovo pontefice e sembra che il cardinale Bernetti, Segretario di Stato, sia stato l’ispiratore di una prova di forza contro i liberali. La rima in A (cani – Romani – bborghisciani – cristiani) ipostatizza lo scontro e definisce gli schieramenti (cattivi–buoni, nemici–amici, atei-devoti). Il papa esce in carrozza; è un attimo, le schiere di popolani circondano il carrozzone, lo assaltano e se ne impadroniscono come se fosse cosa propria. Il poeta dimostra concretezza, semplicità, un tranquillo realismo e la capacità di trasformare in epica i fatti più minuti. Sembra che nel compiere il suo viaggio peregrinante per le strade di Roma non abbia avuto fretta: si è preso il tempo che serviva. I plebei sono brava gente, fedele e devota al soglio di Pietro, però sempre malandrini cenciosi: “ppe rreliquia da bboni cristiani / staccajje ggiù ll’ottoni come vvetro” (vv. 7-8): versi al vetriolo, che stordiscono la placida e sonnolenta quiete delle strade di Roma.

Le terzine. Le due strofe si rimbalzano. La prima dà la parola al Maggiordomo papale, un monsignore che è mandarino di fulgido potere. E la rima in C (Ppidocchietto – ttroppetto), assonantizzante –tra l’altro- con la rima in B, rivela il sussiego del gerarca che vuole redarguire con bonomia. Nella seconda c’è la risposta piccata ma eloquente del Pidocchio, il plebeo che conosce la sua forza, che ha saputo organizzare tutto quel tuppetuppe e che intuisce di avere in mano un potere inusitato. Infatti a tutto quel pavonazzo oppone la schiettezza brutale del “Zitto llì vvoi che nun capite un cazzo” (rima in E). Il dialogo tra i due è un oscillare tra schegge di meditazione e note sarcastiche. I teatri del potere sono come il centro di un ciclone: concentrazione di stasi assoluta in cui niente succede per davvero. Qui l’evocazione del reale va di pari passo con la forza visionaria e con la capacità del poeta di costringerci a guardare dentro la storia e dentro noi stessi. E’ sua l’arte di raccontare, senza sprechi di volgarità, l’infinita commedia umana del potere. Ricetta antica, è vero, ma quanto mai complessa da tradurre in pratica. La strafottenza, il far spallucce, lo strizzar l’occhio, il dar di gomito: Belli fa esplodere parole e situazioni, un disordine che manda gambe all’aria ogni pretesa di ordine, ogni prosopopea clerical-nobiliare. Sono lampi e luci di improvvisa, dolcissima perfidia.

Questo brano dimostra ancora una volta quanto la misura del sonetto gli sia congeniale, gli permetta la necessaria concentrazione, gli garantisca lo spazio che desidera e che ritiene necessario. Del resto i popolani romani sono una sua fissazione: ci si intrufola, li scruta, li ascolta perché li ritiene il più affidabile tra i suoi sensori che captano il reale. Questi plebei non sono una classe sociale: sono il cerchio magico del branco che può arruolare chiunque, al soldo del potente di turno, la folla in autoipnosi che già prefigura la massa dei secoli successivi.

Pochi mesi dopo Belli scriverà quest’altro sonetto e ci spiegherà ancora meglio quanto Roma sia luogo comune del male civico, della plebe che non si è fatta popolo, della classe dirigente che non ha diretto ma spadroneggiato e svillaneggiato.

La viggija de Natale 30 novembre 1832

Ustacchio, la viggija de Natale

tu mmettete de guardia sur portone

de cuarche mmonziggnore o cardinale,

e vvederai entrà sta priscissione. 4

Mo entra una cassetta de torrone,

mo entra un barilozzo de caviale,

mo er porco, mo er pollastro, mo er cappone,

e mmo er fiasco de vino padronale. 8

Poi entra er gallinaccio, poi l’abbacchio,

l’oliva dorce, er pessce de Fojjano,

l’ojjo, er tonno, e l’inguilla de Comacchio. 11

Inzomma, inzino a nnotte, a mmano a mmano,

tu llì t’accorgerai, padron Ustacchio,

cuant’è ddivoto er popolo romano. 14

Eustachio, la vigilia di Natale tu mettiti di guardia sul portone di qualche monsignore o cardinale, e vedrai entrare questa processione. Ora entra una cassetta di torrone, ora entra un barile di caviale, ora il maiale, ora il pollastro, ora il cappone, e ora il fiasco di vino dei proprietari (non il vino di vendita). Poi entra il tacchino, poi l’agnellino, le olive dolci, il pesce del lago di Fogliano nelle paludi Pontine (questo pesce era pregiato perché rimontava nel lago dal mare attraverso un canale), l’olio, il tonno e l’anguilla di Comacchio. Insomma, fino a notte, un po’ per volta, lì tu, padron Eustachio, ti renderai conto della devozione profonda del popolo romano.

Gennaro Cucciniello