E la cupola di Borromini annunciò la modernità.
Francesco Borromini, Cupola della chiesa di San Carlo alle Quattro Fontane, 1634-1646, Roma.
La chiesa di San Carlo alle Quattro Fontane (detta San Carlino per le sue ridotte dimensioni) fu progettata da Francesco Borromini, che allora era per tutti un giovane architetto ticinese che si era formato nell’eterno cantiere gotico del Duomo di Milano, ed era arrivato a Roma in cerca di fortuna.
Alla sue prima commissione indipendente, Borromini accettò di progettare un convento e una chiesa sul terreno straordinariamente piccolo che possedevano i Trinitari Scalzi, un Ordine povero e rigoroso che raccoglieva denaro per riscattare i cristiani prigionieri dei pirati saraceni. La chiesa impressionò straordinariamente i contemporanei: sappiamo che da tutta Europa, e perfino dall’India, giunsero richieste di ottenerne la pianta.
Se a Michelangelo risaliva l’idea di trattare le pareti come masse scultoree, da scavare in profondità e da animare attraverso la luce e l’ombra, qui c’era però qualcosa di completamente nuovo: un senso di movimento continuo, circolare e quasi ossessivo. L’architrave aggettante, che irrompe nel timpano sopra l’altare maggiore spezzandolo fino a renderlo illeggibile, avvolge tutta la chiesa come un grande serpente che contragga e rilasci le sue spire: l’edificio sembra respirare, muoversi, vivere.
L’ornato dell’intradosso della cupola contribuisce decisamente a questo effetto grazie all’adozione di un complicato partito decorativo, le cui proporzioni diminuiscono via via che la cupola sale e si restringe. Borromini guardava alla tradizione: quel motivo deriva da un mosaico paleocristiano della chiesa romana di Santa Costanza. Ma mentre in quel caso si trattava di un disegno, egli qui lo rende tridimensionale, dando la sua forma ad un vero e proprio soffitto a cassettoni: l’effetto che ne scaturisce è quello di una sorta di alveare, possibile omaggio alle api dei Barberini, il cui palazzo sorge di fronte alla chiesa. Ma Borromini non era ossessionato dall’araldica: semmai lo era dalla struttura geometrica della natura, quella che pochi anni prima aveva appassionato il celebre astronomo Johannes Keplero, attento indagatore delle analogie tra la forma dei cristalli di neve e quella degli alveari.
Avventurandosi in questo spazio instabile, apparentemente senza centro e senza confini, l’uomo del Seicento doveva sentirsi come sopraffatto dalla natura: non era più lui, non era più il suo corpo il principio ordinatore o la misura del mondo.
Iniziava un’epoca nuova, affascinante e terribile. Iniziava la modernità.
Tomaso Montanari
(in “Ora d’arte”, Venerdì di Repubblica, 2 febbraio 2018, pag. 93)
Fin qui la rubrica di Montanari. Aggiungo qualche altra notazione. La pianta ellittica della chiesa risulta da due triangoli equilateri con le basi sull’asse trasversale e con i lati inflessi, cioè curvati verso l’interno. I rapporti che intercorrono fra queste unità realizzano una concezione unitaria dello spazio che prevede contrazione ed espansione, proprio come scrive Montanari. Borromini supera il punto di vista centrale dell’architettura rinascimentale, rinunciando al modulo cruciforme e creando un’ellisse il cui perimetro è vivacizzato da nicchie contenenti altari. Movimento e mutamento non sono segni di imperfezione, perché un universo vivente deve potersi muovere e mutare: non ci sono confini, limiti o muri che possano sottrarci “la infinita copia d. cose, perché dall’infinito sempre nuova copia di materia nasce”. Si percepisce nettamente la compressione e dilatazione dello spazio disegnato in pianta: l’occhio segue il robusto cornicione che sottolinea il perimetro, mentre un unico ordine di colonne accentua l’effetto di ondulazione dei muri. L’abbandono dei vincoli imposti dalle proporzioni rinascimentali porta a privilegiare la forma e ne enfatizza le qualità visive: nel piccolo edificio risaltano di più le spettacolari dimensioni delle colonne. Il vano ellittico sembra scaturire dall’incontro di direttrici di forza opposte, provenienti dall’esterno verso l’interno e viceversa, che producono un continuo susseguirsi di piani concavi e convessi. La trabeazione regge la cupola, che non è direttamente innestata sul corpo della chiesa ma è raccordata da una zona di transizione a pennacchi, espediente di solito utilizzato per coprire a cupola le piante a croce greca. L’estesa decorazione, l’uso dell’intonaco e dello stucco uniformano gli elementi architettonici. Nella decorazione della volta interna della cupola si nota un’estrema libertà inventiva che culmina nel disegno complesso dei cassettoni ottagonali ed esagonali cruciformi nei quali filtra la luce piena e intensa della lanterna, con un complicato disegno che ricorda le cellette di un alveare. Essi, diminuendo via via di dimensioni, accentuano l’effetto di fuga prospettica verso l’alto. A questo contribuisce il particolare utilizzo della luce, fatta provenire non solo dalla lanterna, ma anche da aperture celate sopra l’imposta d. cupola. La sua ingegnosità che plasma e quasi cesella le strutture con una grande dedizione ai dettagli rivela la sua eredità dagli scalpellini e dai lapicidi lombardi.
Gennaro Cucciniello