Sonetti del Belli. “Cosa fa er Papa?” 9 ottobre 1835

La “Commedia umana” di G. Gioacchino Belli. La figura del Papa. “Cosa fa er Papa?”  9 ottobre 1835

 

Roma è la città del Papa, del Vice-Dio. Scrivono i critici, sulla scia del nostro poeta, “che Dio stesso non si può concepire che come un tiranno allegramente feroce, che crea gli uomini per dopo prendersi gioco di loro, e che ride a crepapelle se vogliono dare la scalata al Cielo, e che si diverte a tormentare inutilmente gli uomini, così come fece inutilmente morire sulla croce il Figlio”. La crocifissione di Gesù non ha redento il genere umano, spaccato in due dall’abisso delle differenti e incolmabili condizioni sociali. La Città del Papa, col caravanserraglio delle confessioni, delle indulgenze e dei giubilei e con la moltiplicazione dei santi, ha solo reso inutile il Diavolo. La Città del Papa è nata sulla città di Romolo e Remo, dell’odio fratricida. Resta la capitale di un “mondaccio” su cui grava il peccato di Caino, che ha protestato invano contro i privilegi di Abele, il preferito da Dio e l’ultra-raccomandato. Nella Città del Papa la disuguaglianza non è solo nelle ricchezze o nella possibilità di alimentarsi; si è disuguali anche di fronte alla religione, il peccato dei poveri vale poco nel mercato delle indulgenze. E se mai si può pensare di uscire da questa città e da questo mondo, si troverebbe moltiplicata all’infinito la nostra storia sacra e profana. E se gli altri mondi fossero mai abitati, il Papa penserebbe ad estendervi il suo dominio, ad allargare i confini del suo potere.

Belli ha voluto rappresentare il Papa vedendolo da tutti i lati. E quando lo colloca più su della cronaca spicciola, quando lo vede nella situazione fantastica fondamentale del suo dramma, allora il personaggio assurge all’altezza non solo della commedia ma della tragedia romana. La teocrazia come tirannide senile.

E’ chiaro alla coscienza del nostro poeta che l’inattuabilità del progresso a Roma è dovuta all’onnipotenza del papa, il proconsole di Dio. E in tanti modi sono spiegati i simboli e le forme di questo immenso potere vòlto all’oppressione dell’uomo. Il sostantivo “papa” è in assoluto la parola più citata nei sonetti belliani, a rimarcare l’ossessiva presenza del Vicario di Cristo. Nella sua doppia natura di capo spirituale e politico, o –se si vuole- di capo politico in quanto spirituale, egli dovrebbe essere l’uomo più impegnato e sollecito a risolvere il problema della divisione in classi e dell’ingiustizia: invece è sempre uguale a se stesso, eterno e immutabile, chiuso nel suo sovrano disinteresse per l’umanità dolente, teso solo a realizzare il suo sogno di potenza. In margine al sonetto, “Cosa fa er papa?”, Belli scrive una nota che dovrebbe far accettare la scoperta eterodossia dei suoi versi all’eventuale opinione pubblica: “Se fosse vero quello che qui asserisce il nostro romano, potrebbe San Pietro ripetere quanto già disse di Bonifacio: “Quegli che usurpa in terra il luogo mio,/ Il luogo mio, il luogo mio che vaca / Nella presenza del Figliuol di Dio”, stendendo una cortina fumogena e nascondendosi dietro il severo giudizio di Dante.

A un sovrano di questo tipo quali sudditi possono corrispondere? Se lo scandalo irrimediabile è nella testa del corpo sociale, come meravigliarsi se poi nel popolo trionfano l’indolenza e l’apatia? Il papa proiettandosi nell’aldilà dà al Belli l’idea di Dio, il popolano romano proiettandosi nella storia diventa Caino, l’infelicità umana proiettandosi nell’eternità diventa l’ossessione dell’inferno. Non sarà una casualità inspiegabile ma lo Stato del Papa vedrà nascere nei suoi confini, nello stesso decennio, Belli e Leopardi, rappresentanti importantissimi, anche se diversi tra loro, del pessimismo di estrazione post-illuministica del XIX° secolo.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.

“Cosa fa er Papa?”                                           9 ottobre 1935

 

Cosa fa er Papa? Eh, ttrinca, fa la nanna,

taffia, pijja er caffè, sta a la finestra,

se svaria, se scrapiccia, se scapestra,

e ttiè Rroma pe ccammera-locanna.                                                           4

 

Lui, nun avenno fijji, nun z’affanna

a ddirigge e accordà bbene l’orchestra;

perché, a la peggio, l’urtima minestra

sarà ssempre de quello che ccomanna.                                           8

 

Lui l’aria, l’acqua, er zole, er vino, er pane,

li crede robba sua: “E’ tutto mio”;

come a sto monno nun ce fussi un cane.                                         11

 

E cquasi quasi goderìa sto tomo

de restà ssolo, come stava Iddio

avanti de creà ll’angeli e ll’omo.                                                       14

 

Cosa fa il Papa? Eh, beve, dorme, mangia, piglia il caffè, sta alla finestra, si diverte, soddisfa tutti i suoi capricci, vive in modo dissoluto, e tiene Roma come una camera sfitta (vuota della vera religione), la considera come una sua proprietà. Lui, non avendo figli, non si affanna a dirigere e a bene accordare l’orchestra dell’economia dello Stato e delle famiglie; perché, se va male, l’ultima minestra sarà sempre di quelli che comandano e sfruttano. Lui crede roba sua, sua totale proprietà, l’aria, l’acqua, il sole, il vino, il pane, e dice a se stesso: “E’ tutto mio”, come se a questo mondo non esistesse nessun altro oltre a lui. E quasi quasi questo furbacchione godrebbe a restare solo, come stava Dio prima di creare gli angeli e l’uomo.

Metro: sonetto (ABBA, ABBA, CDC, EDE).

 

Il sonetto si apre con una domanda irriverente perché sottende il dubbio che il papa sia un fannullone e un divoratore annoiato, per niente attento alle cure del suo gregge. La risposta, fornita da un punto di vista più di suddito che di fedele, inizia con un elenco apparentemente innocuo delle attività quotidiane del papa ma, di verso in verso, prende progressivamente corpo il ritratto di un uomo arrogante e grottesco, intento a godersi i propri privilegi e affetto da un egoismo sfrenato. Il punto di vista è costruito dal basso, con un’ottica disincantata, plebea, irriverente, oggi diremmo de-sacralizzata e la figura del sommo pontefice, perciò, risulta corrosivamente straniata. Il crescendo è quasi rossiniano: i verbi al presente s’incalzano, le ripetizioni si arruffano (se svaria, se scrapiccia, se scapestra) e s’ingroppano con le allitterazioni nei termini elementari della visione popolaresca. I versi descrivono una vita fatta tutta di privilegi, mangiare, bere, dormire, divertirsi, crapulare, giacché il papa considera Roma un luogo di sua assoluta proprietà, da cui trarre benefici personali e benessere. Ne emerge un quadro dei disastrosi effetti che la sovrapposizione del potere temporale a quello spirituale è venuta a creare; questo papa gaudente e tiranno, assoluto ed egocentrico re del suo regno terreno è l’antitesi completa di ogni immagine del papa come evangelico e caritatevole pastore del suo gregge.  Il risultato però è talmente paradossale da generare un’atmosfera prevalentemente comica.

Con animo sgomento, dopo il frizzo ridanciano e insieme diabolico, si arriva alla percezione nuda e chiara della solitudine di Dio che, proprio per il fatto di essere divino, conferma l’universalità di questo attributo della vita, dell’uomo e di Dio: siamo soli. Pur nel ghigno l’intonazione mi sembra attonita, come quando si è di fronte a grandi, enigmatici problemi. Il papa-Dio, proprietario assoluto e celibe, senza figli, solitario ed egoista, esprime l’antitesi più radicale alla carità cristiana. C’è forza e disperazione. Questo Dio ha alle spalle un’intera eternità passata in solitudine assoluta, senza alcuna risorsa nella sua natura che funga da fonte autonoma di gioia e di felicità.

Del papa si enfatizza, oltre alla vita godereccia e dissoluta, la concezione esclusivamente terrena, materiale, della funzione che esercita e, meglio, del potere che ha. Quando la prospettiva si trasferisce dalla dimensione materiale del vivere (si noti il lessico, “lui l’aria, l’acqua, er zole, er vino, er pane / li crede robba sua”) a quella ultraterrena è solo per stigmatizzare l’assoluto egoismo, il delirio di onnipotenza di colui che lascia vacante la sede di Pietro. Belli stesso annota: “Se fosse vero quello che qui asserisce (v. 4) il nostro romano, “e ttiè Roma pe cammera-locanna”, potrebbe San Pietro ripetere quanto già disse di papa Bonifacio: “Quegli che usurpa in terra il luogo mio,/ il luogo mio, il luogo mio che vaca / nella presenza del Figliuol di Dio” (Dante, Paradiso, XXVII, 22-24).

Il giorno seguente, il 10 ottobre, Belli scrive un sonetto intitolato “La risposta de Monziggnore”:

L’unnicèsima vorta ch’io ciaggnéde

ebbe arfine la grazzia de l’udienza;

e che vòi!, ner trovàmmeje in presenza

fui lì lì quasi pe baciaje er piede.                                                       4

 

Poi je disse: “Lustrissimo, Eccellenza,

nasce de qui ffin qui, come po’ vede

dar momoriale che ppò ffaje fede

de la giustizia a scapito innocenza”.                                                           8

 

Lui stava quieto; e io: “Dov’è er dilitto?

C’ha ffatto er fijo mio? fora le prove:

nun parlo bene?”. E Monziggnore zitto.                                        11

 

Ner mejo der discorzo, er carzolaro

Venne a pportaje un par de scarpe nove,

e me mannòrno via com’un zomaro.

 

                                                                       Gennaro  Cucciniello