Belli. La politica. “Er merito”, 3 aprile 1836. I valori morali sono il riflesso di quelli materiali ed economici.

La “Commedia umana” di G. Gioacchino Belli. “ La politica”. 2- “Er merito”, 3 aprile 1836

Quale prefazione riporto una lucida analisi di R. Marchi: “Per Belli, a differenza del Porta, il romanesco impiegato nelle poesie è uno strumento letterariamente vergine, che per la prima volta (al di là della tradizione popolare degli stornelli, delle pasquinate, della poesia sguaiatamente comica) viene elevato a lingua della “verità”, veicolo privilegiato per i contenuti semplici, umili, spesso brutali di una classe sociale diseredata e vessata da secoli di governo papale. L’assenza di una codificazione letteraria (ma anche più semplicemente grammaticale) del romanesco consente allo scrittore di ottenere un effetto di particolare immediatezza espressiva. La lingua appare quindi una risorsa preziosa per testimoniare senza diaframmi culturali o ideologici un mondo emarginato e sconosciuto ai più. Il suo messaggio è pervaso di rinuncia, di polemica sfiducia nelle sorti dell’uomo, di ribellione senza sbocco possibile. Facendo parlare direttamente i personaggi (uomini di malaffare, donne sfortunate o perdute, prelati disinvolti e maneggioni, emarginati sociali) Belli, oltre a darci una complessa immagine di quel sottobosco sociale, esprime –dietro il velo di quelle voci acri o semplici- anche il senso forse più profondo della sua riflessione.

“La parola, così, esprime la risposta che non ammette repliche e annichilisce l’interlocutore, diventa lo strumento che mette a nudo l’ipocrisia di un comportamento o di una situazione, è l’arma con la quale il popolano dimostra di cogliere, pur nella sua rozzezza, la vera sostanza delle strutture politiche, sociali e ideologiche che lo circondano e lo opprimono. Una gran parte dei sonetti è dedicata alla rappresentazione dei molteplici personaggi che popolano le vie e le piazze di Roma: l’autore non li descrive ma li fa parlare; essi raccontano un fatto accaduto o dialogano tra loro, ma il più delle volte con un interlocutore muto che può essere la moglie, il figlio, l’amico o il compagno di osteria. Sfilano così sotto gli occhi di noi lettori vetturini e artigiani, accattoni e prostitute, mariti traditi e guappi di quartiere”.

La critica ha potuto parlare della sua opera come dell’espressione della crisi di una cultura borghese moderna in uno Stato, come quello della Chiesa, ancora privo di una vera classe borghese, diviso nella schematica opposizione tra nobiltà ecclesiastica e popolo diseredato. Nella poesia di Belli si trova quindi descritta una situazione sociale e culturale unica nella storia europea: il contrasto fra la Roma tesoro di antichità, meta di viaggio degli intellettuali di tutta Europa che vi cercavano le vestigia della grandezza di un tempo, la Roma “città sacra” e cuore della cristianità, e la Roma plebea, priva di strutture economiche e sociali moderne, profondamente provinciale, inconsapevolmente decadente. Nonostante Belli non esibisca il dolore sociale per pronunziare una impegnativa condanna politica, nondimeno in questa commedia umana rappresentata ai suoi livelli più infimi si avverte la presenza della riflessione razionalista e pessimista dell’intellettuale formatosi soprattutto sulla scorta del pensiero illuminista. La stessa struttura dei suoi “Sonetti” ne testimonia l’emblematicità: l’autore non li aggregò infatti secondo un ordito narrativo e strutturale definito. La serie vive, in cadenza cronologica, della complessità e caoticità della vita che anima la Città Eterna. Fuori da qualsiasi costruzione preordinata, trionfano così il dialogo o il monologo, con cui gli stessi personaggi si rappresentano e si impongono sulla scena della vita (letteraria) per un breve momento, rivelando la felice attitudine del poeta alla resa scenica, teatrale degli episodi”, dimostrando la sua capacità e volontà di ubbidire al dettato dantesco: “forti cose a pensare mettere in versi” (Purgatorio, XXIX, 42).

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nei quali possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.

“Er merito” 3 aprile 1836

Merito dite? eh ppoveri merlotti!

Li quadrini, ecco er merito, fratelli.

Li ricchi soli sò boni, sò belli,

sò grazziosi, sò gioveni e ssò dotti. |4

A l’incontro noantri poverelli

 tutti schifenze, tutti galeotti,

tutti degni de sputi e de cazzotti,

tutti cucuzze in cammio de cervelli. |8

Fà comparì un pezzente immezzo ar monno:

 fussi magàra una perla orientale,

“Presto cacciate via sto vagabbonno”. |11

Tristo chi sse presenta a li cristiani

scarzo e cencioso. Inzìno pe le scale

lo vanno a mozzicà ppuro li cani. |14

Metro: sonetto (ABBA, BAAB, CDC, EDE).

“Merito”, dite? eh, poveri ingenui! I quattrini, ecco il merito, fratelli. Solo i ricchi sono buoni, sono belli, sono graziosi, sono giovani e sono dotti. Al contrario, noi altri poveretti siamo tutti sozzi e puzzolenti, tutti criminali, tutti degni di ricevere sputi e cazzottoni, tutti zucche senza cervello. Fai comparire un pezzente in un salone di ricevimento: fosse magari una perla orientale, “presto, cacciate via questo vagabondo”. Infelice è chi si presenta davanti agli uomini di questo nostro mondo scalzo e vestito di cenci. Anche i cani lo inseguiranno su per le scale e lo morderanno.

Le quartine. I valori morali della vita di un uomo non sono altro che il riflesso di quelli materiali ed economici: questa è l’amara considerazione che più volte ritorna nei sonetti belliani. E qui il ritmo martellante delle ripetizioni lo scandisce: per ben cinque volte, nei vv 3 e 4, (“sò”) –accompagnati i verbi dalle rime e dalle assonanze, soli, boni, graziosi, dotti, merlotti- in una rete quasi ipnotica di suoni ; per quattro volte nei vv. 6-8 (“tutti”), con la solita simmetria dell’antitesi tra i ricchi e i “noantri poverelli”. Con tenacia poetica e civile il nostro autore spinge la sua poesia in una specie di mistero doloroso, interessato alla solitudine inerme degli esseri umani senza privilegi, rendendo intensa e perfino straziante l’emozione di una vita quotidiana piena di umiliazioni. Egli sembra vicino abbastanza da partecipare ai tormenti della folla anonima dei miserabili, ma distante a sufficienza per divertirsi a descrivere l’insensatezza della commedia umana.

Le terzine. Il richiamo va subito al passo dantesco, protagonisti i diavoli nella bolgia dei barattieri: “Con quel furore e con quella tempesta / ch’escono i cani a dosso al poverello / che di sùbito chiede ove s’arresta,/ usciron quei di sotto al ponticello,/ e volser contra lui tutt’ i runcigli…” (Inferno, XXI, 67-71), e la memoria di Dante è scoperta e perfino lessicale. La colta citazione letteraria può essere accompagnata però anche dal ricordo del racconto evangelico del ricco epulone e di Lazzaro che giace alla sua porta circondato dai cani: “Gesù diceva ancora ai suoi discepoli: (…) Or v’era un uomo ricco, il quale vestiva porpora e bisso, ed ogni giorno godeva splendidamente; e v’era un pover’uomo chiamato Lazzaro, che giaceva alla porta di lui, pieno d’ulceri, e bramoso di sfamarsi con le briciole che cadevano dalla tavola del ricco; anzi perfino venivano i cani a leccargli le ulceri. Or avvenne che il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno d’Abrahamo; morì anche il ricco, e fu seppellito. E nell’Ades, essendo nei tormenti, alzò gli occhi e vide da lontano Abrahamo, e Lazzaro nel suo seno; ed esclamò: Padre Abrahamo, abbi pietà di me, e manda Lazzaro a intingere la punta del dito nell’acqua per rinfrescarmi la lingua, perché son tormentato in questa fiamma. Ma Abrahamo disse: Figliuolo, ricordati che tu ricevesti i tuoi beni in vita tua, e che Lazzaro similmente ricevette i mali; ma ora qui egli è consolato, e tu sei tormentato” (Luca, 16, 19-25). Belli utilizza la memoria biblica escludendo la consolazione dell’aldilà. Anzi i cani mordono le carni e non leccano le ferite dell’accattone scarzo e cencioso; e la rima finale, cristiani-cani, chiude in modo emblematico la descrizione di una realtà tanto crudele e ingiusta in una società dominata dal potere religioso.

Nello stesso giorno Belli scrive un altro sonetto, intonato con il precedente:

La vedova der zervitore

Sto né in celo né in terra, Madalena.

Ciarle quante ne vòi, bone parole…

Ciò rimesso a quest’ora un par de sòle,

e c’ho avuto? un testone ammalappena. |4

Sai chi crede a le lagrime? Chi ppena.

Sai chi ppenza ar malanno, eh? Chi je dole;

ma no chi è grasso, no chi ha robba ar sole,

no chi ss’abbotta a ppranzo e crepa a cena. |8

Doppo tant’anni de servizzio! un vecchio,

siggnor iddio, che l’ha pportato in braccio!

Uno che j’era ppiù c’un padre! Un specchio |11

d’onestà!… Eppuro a un omo de sta sorte

je se fa chiude l’occhi s’un pajaccio

senza una carità doppo la morte! |14

Maddalena mia, io sto qua, né in cielo né in terra. Parole ne ho ricevute quante ne vuoi, buone parole… A quest’ora ci ho rimesso un paio di suole di scarpe, e cosa ci ho ricavato? Appena tre paoli. Sai chi crede alle lacrime? Chi pena. Sai chi pensa alla malattia? Chi prova il dolore. Ma no chi è grasso, chi è proprietario, no chi si gonfia a pranzo e mangia a crepapelle a cena. Dopo tanti anni di servizio! Un vecchio, Signore Iddio, che l’ha portato in braccio! Uno che gli era più d’un padre! Uno specchio d’onestà! Eppure, a un uomo di questa qualità lo si fa morire su un pagliericcio, senza fargli un po’ di carità nemmeno dopo la morte.

Gennaro Cucciniello