Belli. Sonetti. “A Giuseppe Mazzini”, 1849

La “Commedia umana” di G. Gioacchino Belli. La Politica. “Al signor Giuseppe Mazzini” 1849

Quale prefazione riporto una lucida analisi di R. Marchi: “Per Belli, a differenza del Porta, il romanesco impiegato nelle poesie è uno strumento letterariamente vergine, che per la prima volta (al di là della tradizione popolare degli stornelli, delle pasquinate, della poesia sguaiatamente comica) viene elevato a lingua della “verità”, veicolo privilegiato per i contenuti semplici, umili, spesso brutali di una classe sociale diseredata e vessata da secoli di governo papale. L’assenza di una codificazione letteraria (ma anche più semplicemente grammaticale) del romanesco consente allo scrittore di ottenere un effetto di particolare immediatezza espressiva. La lingua appare quindi una risorsa preziosa per testimoniare senza diaframmi culturali o ideologici un mondo emarginato e sconosciuto ai più. Il suo messaggio è pervaso di rinuncia, di polemica sfiducia nelle sorti dell’uomo, di ribellione senza sbocco possibile. Facendo parlare direttamente i personaggi (uomini di malaffare, donne sfortunate o perdute, prelati disinvolti e maneggioni, emarginati sociali) Belli, oltre a darci una complessa immagine di quel sottobosco sociale, esprime –dietro il velo di quelle voci acri o semplici- anche il senso forse più profondo della sua riflessione.

La parola, così, esprime la risposta che non ammette repliche e annichilisce l’interlocutore, diventa lo strumento che mette a nudo l’ipocrisia di un comportamento o di una situazione, è l’arma con la quale il popolano dimostra di cogliere, pur nella sua rozzezza, la vera sostanza delle strutture politiche, sociali e ideologiche che lo circondano e lo opprimono. Una gran parte dei sonetti è dedicata alla rappresentazione dei molteplici personaggi che popolano le vie e le piazze di Roma: l’autore non li descrive ma li fa parlare; essi raccontano un fatto accaduto o dialogano tra loro, ma il più delle volte con un interlocutore muto che può essere la moglie, il figlio, l’amico o il compagno di osteria. Sfilano così sotto gli occhi di noi lettori vetturini e artigiani, accattoni e prostitute, mariti traditi e guappi di quartiere”.

La critica ha potuto parlare della sua opera come dell’espressione della crisi di una cultura borghese moderna in uno Stato, come quello della Chiesa, ancora privo di una vera classe borghese, diviso nella schematica opposizione tra nobiltà ecclesiastica e popolo diseredato. Nella poesia di Belli si trova quindi descritta una situazione sociale e culturale unica nella storia europea: il contrasto fra la Roma tesoro di antichità, meta di viaggio degli intellettuali di tutta Europa che vi cercavano le vestigia della grandezza di un tempo, la Roma “città sacra” e cuore della cristianità, e la Roma plebea, priva di strutture economiche e sociali moderne, profondamente provinciale, inconsapevolmente decadente. Nonostante Belli non esibisca il dolore sociale per pronunziare una impegnativa condanna politica nondimeno in questa commedia umana rappresentata ai suoi livelli più infimi si avverte la presenza della riflessione razionalista e pessimista dell’intellettuale formatosi soprattutto sulla scorta del pensiero illuminista. La stessa struttura dei suoi “Sonetti” ne testimonia l’emblematicità: l’autore non li aggregò infatti secondo un ordito narrativo e strutturale definito. La serie vive, in cadenza cronologica, della complessità e caoticità della vita che anima la Città Eterna. Fuori da qualsiasi costruzione preordinata, trionfano così il dialogo o il monologo, con cui gli stessi personaggi si rappresentano e si impongono sulla scena della vita (letteraria) per un breve momento, rivelando la felice attitudine del poeta alla resa scenica, teatrale degli episodi”, dimostrando la sua capacità e volontà di ubbidire al dettato dantesco: “forti cose a pensare mettere in versi” (Purgatorio, XXIX, 42).

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.

Al signor Giuseppe Mazzini 1849

Signor Giuseppe mio, che ve ne pare

di questi popolacci papalini

che rinnegano voi, Saffi, Armellini

e messer Belzebù vostro compare, 4

per rimetter sul trono e sull’altare

un prete che non ama gli assassini

e pospone agli oracoli divini

le vostre profezie semplici e chiare? 8

Fin che abbiate però carta ed inchiostro

ben saprete a costor mettere in testa

che lo Stato del Papa è Stato vostro. 11

Sfoderate ogni giorno una protesta,

e fra un secolo e mezzo il popol nostro

tornerà, se vivrete, a farvi festa. 14

Caro mio signor Giuseppe, che vi sembra di questo popolaccio favorevole al papa e che rinnega voi, Saffi ed Armellini (era il triumvirato al governo della Repubblica Romana, proclamata nel febbraio del 1849) e il signor Satana vostro compare (perché la Repubblica ha usurpato il regno del papa, quindi di Dio), per rimettere sul trono (il potere temporale) e sull’altare (il potere spirituale) un prete (Pio IX) che non ama gli assassini repubblicani e considera le vostre profezie semplici e chiare (il programma mazziniano di uno Stato repubblicano e di “una Roma del popolo”) meno importanti della parola di Dio? Fino a quando, però, voi disporrete di carta e di inchiostro (strumenti dell’intensa attività di propaganda volta a diffondere tra il popolo l’idea repubblicana) saprete bene far capire ai vostri seguaci che lo Stato del Papa è il vostro Stato. Pubblicate ogni giorno una protesta e fra 150 anni il nostro popolo romano tornerà, se sarete ancora vivo, a festeggiarvi.

Metro: sonetto (ABBA, ABBA, CDC, EDE).

Il sonetto fu composto nel giorno del ritorno di papa Pio IX a Roma Alle intenzioni sovversive di Mazzini, rappresentato addirittura come compare di Belzebù, è contrapposta la fedeltà alla Chiesa del popolo di Roma, refrattario alle insidie della propaganda repubblicana. Benché di segno politico rovesciato, questo sonetto può essere accostato a “Cosa fa er papa?”, in quanto espressione sarcastica di ostilità da parte del popolo nei confronti di un potente. Nel tempo della rivoluzione anche i capi repubblicani impersonano il potere. Ma chi è che parla in entrambi i testi? Non bisogna dimenticare che nel 1798 i rivoluzionari giacobini, fondatori della prima Repubblica Romana, confiscarono tutti i beni della famiglia di Belli, che aveva sette anni, e che fu costretto a fuggire a Napoli con la madre. E’ comprensibile il profondo turbamento del poeta nel 1849.

Cosa fa er Papa?” 9 ottobre 1835

Cosa fa er Papa? Eh, ttrinca, fa la nanna,

taffia, pijja er caffè, sta a la finestra,

se svaria, se scrapiccia, se scapestra,

e ttiè Rroma pe ccammera-locanna. 4

Lui, nun avenno fijji, nun z’affanna

a ddirigge e accordà bbene l’orchestra;

perché, a la peggio, l’urtima minestra

sarà ssempre de quello che ccomanna. 8

Lui l’aria, l’acqua, er zole, er vino, er pane,

li crede robba sua: “E’ tutto mio”;

come a sto monno nun ce fussi un cane. 11

E cquasi quasi goderìa sto tomo

de restà ssolo, come stava Iddio

avanti de creà ll’angeli e ll’omo. 14

Cosa fa il Papa? Eh, beve, dorme, mangia, piglia il caffè, sta alla finestra, si diverte, soddisfa tutti i suoi capricci, vive in modo dissoluto, e tiene Roma come una camera sfitta (vuota della vera religione), la considera come una sua proprietà. Lui, non avendo figli, non si affanna a dirigere e a bene accordare l’orchestra dell’economia dello Stato e delle famiglie; perché, se va male, l’ultima minestra sarà sempre di quelli che comandano e sfruttano. Lui crede roba sua, sua totale proprietà, l’aria, l’acqua, il sole, il vino, il pane, e dice a se stesso: “E’ tutto mio”, come se a questo mondo non esistesse nessun altro oltre a lui. E quasi quasi questo furbacchione godrebbe a restare solo, come stava Dio prima di creare gli angeli e l’uomo.

Gennaro Cucciniello