Belli. Sonetti. La Politica. “Li rivortosi”, 2 settembre 1838

Belli. Politica. “Li rivoltosi”               2 settembre 1838

 

Quale prefazione riporto una lucida analisi di R. Marchi: “Per Belli, a differenza del Porta, il romanesco impiegato nelle poesie è uno strumento letterariamente vergine, che per la prima volta (al di là della tradizione popolare degli stornelli, delle pasquinate, della poesia sguaiatamente comica) viene elevato a lingua della “verità”, veicolo privilegiato per i contenuti semplici, umili, spesso brutali di una classe sociale diseredata e vessata da secoli di governo papale. L’assenza di una codificazione letteraria (ma anche più semplicemente grammaticale) del romanesco consente allo scrittore di ottenere un effetto di particolare immediatezza espressiva. La lingua appare quindi una risorsa preziosa per testimoniare senza diaframmi culturali o ideologici un mondo emarginato e sconosciuto ai più. Il suo messaggio è pervaso di rinuncia, di polemica sfiducia nelle sorti dell’uomo, di ribellione senza sbocco possibile. Facendo parlare direttamente i personaggi (uomini di malaffare, donne sfortunate o perdute, prelati disinvolti e maneggioni, emarginati sociali) Belli, oltre a darci una complessa immagine di quel sottobosco sociale, esprime –dietro il velo di quelle voci acri o semplici- anche il senso forse più profondo della sua riflessione.

“La parola, così, esprime la risposta che non ammette repliche e annichilisce l’interlocutore, diventa lo strumento che mette a nudo l’ipocrisia di un comportamento o di una situazione, è l’arma con la quale il popolano dimostra di cogliere, pur nella sua rozzezza, la vera sostanza delle strutture politiche, sociali e ideologiche che lo circondano e lo opprimono. Una gran parte dei sonetti è dedicata alla rappresentazione dei molteplici personaggi che popolano le vie e le piazze di Roma: l’autore non li descrive ma li fa parlare; essi raccontano un fatto accaduto o dialogano tra loro, ma il più delle volte con un interlocutore muto che può essere la moglie, il figlio, l’amico o il compagno di osteria. Sfilano così sotto gli occhi di noi lettori vetturini e artigiani, accattoni e prostitute, mariti traditi e guappi di quartiere”.

La critica ha potuto parlare della sua opera come dell’espressione della crisi di una cultura borghese moderna in uno Stato, come quello della Chiesa, ancora privo di una vera classe borghese, diviso nella schematica opposizione tra nobiltà ecclesiastica e popolo diseredato. Nella poesia di Belli si trova quindi descritta una situazione sociale e culturale unica nella storia europea: il contrasto fra la Roma tesoro di antichità, meta di viaggio degli intellettuali di tutta Europa che vi cercavano le vestigia della grandezza di un tempo, la Roma “città sacra” e cuore della cristianità, e la Roma plebea, priva di strutture economiche e sociali moderne, profondamente provinciale, inconsapevolmente decadente. Nonostante Belli non esibisca il dolore sociale per pronunziare una impegnativa condanna politica nondimeno in questa commedia umana rappresentata ai suoi livelli più infimi si avverte la presenza della riflessione razionalista e pessimista dell’intellettuale formatosi soprattutto sulla scorta del pensiero illuminista. La stessa struttura dei suoi “Sonetti” ne testimonia l’emblematicità: l’autore non li aggregò infatti secondo un ordito narrativo e strutturale definito. La serie vive, in cadenza cronologica, della complessità e caoticità della vita che anima la Città Eterna. Fuori da qualsiasi costruzione preordinata, trionfano così il dialogo o il monologo, con cui gli stessi personaggi si rappresentano e si impongono sulla scena della vita (letteraria) per un breve momento, rivelando la felice attitudine del poeta alla resa scenica, teatrale degli episodi”, dimostrando la sua capacità e volontà di ubbidire al dettato dantesco: “forti cose a pensare mettere in versi” (Purgatorio, XXIX, 42).

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nei quali possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.

 

                                                                                              Gennaro  Cucciniello

 

                Li rivortosi                   2 settembre 1838 

 

Chiameli allibberali, o fframmasoni,

o carbonari, è ssempre una pappina:

è ssempre canajaccia giacubbina

da levassela for de li cojoni.                                    4

 

E ppe Ppapi io voria tanti Neroni

che la mannara de la quajottina

facessino arrotalla oggni matina

acciò er zangue curressi a ffuntanoni.                   8

 

Tu accettua noantri in camiciola

e li preti e li frati, er rimanente

vacce a la ceca e sségheje la gola.                          11

 

Perché è mejo a scannà quarch’innocente.

De quer che ssia c’una caroggna sola

resti in ner monno a impuzzolì la gente.               14

 

                                      I ribelli

Chiamali liberali o framassoni o carbonari, è sempre la stessa cosa: è sempre un canagliume giacobino da levarselo fuor dalle palle. E per papi io vorrei tanti Neroni che facessero arrotare ogni mattina la mannaia della ghigliottina affinché il sangue scorresse a fontanoni. Tu eccettua noi altri in camiciola (è la giacchetta dei popolani romani) e i preti e i frati, in quelli che restano vai alla cieca e segagli la gola. Perché è meglio scannare qualche innocente. Piuttosto che resti una carogna sola nel mondo a impestare tutti gli altri.

 

Metro: sonetto (ABBA, ABBA, CDC, DCD).

Le quartine.

In questi versi sembra che l’intellettuale scompaia per lasciare il posto all’invettiva incarognita del popolano sanfedista, una faccia attonita di umanità sotterranea. Abbiamo fatto esperienza della simpatia umana di Belli poeta per gli umili e i diseredati, della sua comprensione profonda e della sua pietà per le sofferenze della povera gente. Tante volte abbiamo avuto l’impressione che nei Sonetti l’intellettuale-poeta si ritrovasse allo stesso livello dell’uomo comune e che fosse in grado di avvertirne anche i palpiti intimi e che stesse un passo indietro rispetto ai personaggi. Qui, invece, il grido pieno d’odio è scagliato in modo urlato: si vedano le rime “canajaccia giacubbina” (v. 3), “la mannara de la quajottina” (v. 6) e “fframmasoni” (v. 1), “for de li cojoni” (v. 4), “tanti Neroni” (v. 5) e “er zangue a ffuntanoni” (v. 8). C’è il gusto quasi cinematografico dei particolari crudeli.

Le terzine.

Continua lo spettacolo di morte. Quel “sségheje la gola (v. 11) a la ceca”, quel “è mejo a scannà quarch’innocente” (v. 12) fa continuare la sarabanda reazionaria, completata da quell’immagine di “preti e frati” in allegra combriccola con “noantri in camiciola” (v. 9). Un intreccio mirabile tra la vita quotidiana pullulante nei vicoli e nelle piazze di Roma e i lampi della Storia con la maiuscola. Così la gaglioffaggine, l’ingenua mancanza di purezza, il cinismo ci rendono questo poeta così prossimo e irresistibile.

Il 19 giugno di questo stesso anno, il 1838, Belli aveva scritto:

 

Un paragone

 

E ttant’è vero che nun è bucia,

che lo porteno inzino le gazzette.

Er Papa jer’a otto ricevette

monziggnor Accemette de Turchia.                                 4

 

Questo ve fa capì, mastro Tobbia,

c’oggni paese ar monno ha er zu’ Accemette,

come tiè oggn’osteria le su’ fujette

e oggni chiesa ha la propia sagrestia.                                      8

 

Quale città sse poterebbe arregge

senza Montecitori e ttribbunali

da fà ssentenze e minestrà la lègge?                               11

 

Cusì ppuro l’impieghi cammerali

voi sentirete chi ssa scrive e legge

che qua a Roma e in Turchia sò ttutti uguali.                14

 

E tanto è vero che non è bugia che lo riportano perfino i giornali. Il Papa, otto giorni fa, ha ricevuto il signor Ahmed Feth Pascià, ambasciatore di Turchia presso il re di Francia (l’equivoco si fonda sulla somiglianza del nome dell’ambasciatore col titolo di A. C. Met (Auditor Camerae Met.), appartenente ad uno dei giudici prelati del Foro di Roma). Questo vi fa capire, mastro Tobia, che ogni paese al mondo ha il suo Acmet, come ogni osteria ha le sue fogliette (è la misura di mezzo litro, usata prevalentemente per il vino), e ogni chiesa ha la propria sagrestia. Quale città potrebbe reggersi senza Montecitori (Montecitorio era il palazzo dei tribunali camerali) e tribunali che facciano sentenze e amministrino la giustizia? Così voi sentirete da chi sa scrivere e leggere che pure gli impieghi della Camera Apostolica sono uguali, a Roma come in Turchia (torna qui il paragone ripetuto tra il governo papale e quello turco. In altro sonetto papa Gregorio XVI è chiamato “Papa de Turchia”).

 

                                               Gennaro  Cucciniello